Europa nel pallone

1 Luglio 2008 di Stefano Olivari

1. Finalmente un Europeo dove tutti sembrano d’accordo. L’ha vinto la Spagna che ha espresso il gioco più bello, più divertente, più spumeggiante. La Spagna dei giovani, dei talenti, di nonno Aragones: sì, proprio quello che due anni fa aveva dato del “negro di merda” ad Henry, anche se lo aveva fatto per gioco, per motivare il giovane Reyes. Come passa in fretta il tempo. Colui che fino a poco tempo fa era visto come il diavolo oggi è già rimpianto dalla Federazione spagnola e dalla maggior parte dei tifosi, per quella sua decisione stramba di lasciare tutto e andare ad Istanbul ad allenare il Fenerbahce.
2. Ha vinto la Spagna dunque, ha vinto il gioco spettacolare – ma non fine a se stesso- contro la fisicità dei tedeschi. L’avevamo detto già ad inizio torneo, le grandi competizioni per nazionali ci piacciono proprio perché mettono a confronto una scuola di pensiero con un’altra e quest’Europeo da questo punto di vista ha rispettato in pieno le attese: i portoghesi che giocano divinamente ma che non capiscono che poi devono tirare in porta, anche se per la verità in quest’occasione si sono più dovuti preoccupare della loro di porta, quella difesa (eufemismo) da Ricardo; gli olandesi che coprono tutto il campo, corrono, fanno prendere ferie per il giorno della finale al loro primo ministro e poi vengono travolti dai russi, allenati proprio da un olandese; gli italiani che giocano da italiani. In fondo la Nazionale non è cambiata molto negli ultimi due anni, anzi forse gioca così da sempre. Gianni Brera diceva che gli italiani non avevano la forza fisica di altri popoli e quindi la tattica attendista era la migliore applicabile. Oggi siamo sicuramente più nutriti che un tempo, ma certe abitudini non sono cambiate. I tedeschi invece sono quelli che arrivano sempre in fondo, quelli che agli occhi di Lineker “alla fine vincono sempre loro” e anche stavolta non si sono smentiti. Forse chi in questo Europeo ci ha sorpreso in fondo sono stati propri gli spagnoli, abituati ad uscire negli ottavi o nei quarti di finale, fortuna loro che quest’estate non sono incappati nel Belgio di turno.

3. Proprio riguardo a ciò che abbiamo detto finora, vogliamo segnalare il lavoro di Jvan Sica, che nel suo “L’Europa nel pallone: stili, riti e tradizioni del calcio europeo” (Edizioni Zona) entra nell’animo delle principali scuole europee, scavando nello spirito dei popoli, rileggendo ed interpretando la storia di questi Paesi. Sica ha svolto un lavoro meticoloso occupandosi di sette scuole calcistiche (francese, olandese, italiana, iberica, tedesca, russa e balcanica) tutte presenti agli Europei appena conclusi in Svizzera ed Austria. L’autore divide il suo studio in tre parti e per ogni scuola si occupa dell’identità, della storia e infine mette in campo una “squadra di tutti i tempi” della Nazione considerata. Notevole il profilo che l’autore traccia per quanto riguarda gli italiani e il loro gioco, sintetizzato nella citazione presa da Churchill e messa all’inizio del capitolo: “gli italiani perdono le partite di calcio come fossero guerre e le guerre come se fossero delle partite di calcio”. Ci ha appassionato anche il certosino lavoro fatto per spiegare lo stile olandese, dove vengono citati anche pittori ed artisti fiamminghi e viene tracciato un parallelismo fra la pittura di Bosch e il gioco totale degli anni ’70. Addirittura da standing ovation il capitolo dedicato al calcio russo, per la meticolosità del lavoro fatto. Sica in questo caso traccia un profilo di cos’era – o cosa doveva essere- l’ homo sovieticus e da questo parte per una spiegazione del calcio che si è giocato a Mosca dopo la Rivoluzione del 1917, ricordando anche giochi di strada che si facevano a Mosca (il stenka na stenku) e che sono stati menzionati anche nel libro di Mario Alessandro Curletto sulla storia dello Spartak. Un difetto? Non è un libro facilissimo, proprio per i parallelismi che vengono fatti con la pittura, l’architettura e la filosofia, ma alla fine i concetti vengono spiegati bene e la lettura scorre piacevole. Qualcuno potrà obiettare senz’altro che non bisogna ricorrere a Camus o menzionare Kant per spiegare il rotolare di una palla all’interno di una rete e parzialmente gli diamo ragione. Continueremmo però a non capire perché i tedeschi arrivino sempre fino alla fine, gli olandesi ricevono applausi e non trofei, gli italiani subiscano e poi contrattacchino e gli inglesi salutino tutti quanto la competizione comincia a farsi interessante.
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