Italia, chitarre e Battisti – Intervista ad Alberto Radius

4 Febbraio 2015 di Paolo Morati

Alberto Radius

Nell’ultimo anno e mezzo Alberto Radius è uscito con due dischi. Il primo, e più recente, realizzato in collaborazione con Ricky Portera, intitolato Una sera con Lucio e contenente diverse cover di brani di Lucio Battisti e Lucio Dalla, artisti dei quali sono stati rispettivamente storici collaboratori. Il secondo, Banca d’Italia, totalmente di inediti. Due nuovi lavori (entrambi prodotti da Beppe Aleo per Videoradio) arrivati a una decina d’anni da Please my guitar. Se da un lato Una sera con Lucio è un omaggio di qualità a due grandi della musica italiana, Banca d’Italia contiene diverse canzoni positivamente ‘vecchio stile’ (le nostre preferite Il tango di Dedalo, La cerchia dei dannati e Non vale più), e che presenta alcune ‘variazioni’ strumentali (splendide in Colombo e l’uovo) dove le dita di Radius fanno sentire di che pasta sono ancora fatte. Lo abbiamo intervistato per saperne qualcosa in più e raccontare un personaggio che ha fatto la storia della canzone (e della chitarra) in Italia.

Allora Alberto, cominciamo dal presente…
Intanto posso dirti che avevo presentato un pezzo per Sanremo, ma l’hanno scartato. Un pezzo che ritengo molto forte, caratterizzato da un testo di Tullio Pizzorno estremamente poetico sul primo prigioniero americano decapitato, e che recupererò in un prossimo lavoro al quale sto già pensando. Mancano ancora quasi tutti i testi mentre per le musiche sono già arrivato a otto brani con l’obiettivo di non superare i dodici. Il disco con Ricky Portera sta invece andando bene, un album dove ci alterniamo nelle diverse canzoni. Il pezzo venuto meglio è secondo me Ayrton e l’assolo finale di Ricky, dove ha superato se stesso, ha qualcosa in più rispetto all’originale. L’idea per la sua realizzazione, in breve, è nata dopo una serata in cui abbiamo suonato insieme a Gioia del Colle. Con Ricky del resto ci conosciamo da anni, oltre ad aver partecipato più volte allo spettacolo La Notte delle chitarre. L’album è stato registrato presso gli UP Studios di Ugo Poddighe, avendo io ormai venduto i miei studi oltre un anno fa.

Come è nato invece il progetto di Banca d’Italia che contiene tra l’altro anche alcuni testi scritti da Oscar Avogadro, scomparso di recente?

Partiamo dalla foto di copertina – fornita da Red Ronnie – caratterizzata da una bocca enorme con sotto un barbone che dorme. È l’immagine di un’Italia che si sta sfaldando, un Paese in sfacelo, dipinto a partire proprio dalla canzone Banca d’Italia scritta dodici anni fa, ma che risulta ancora molto attuale, come lo è ancora Nel ghetto (del 1977, contenuta in Carta straccia, ndr). L’album è frutto di più anni di lavoro, mi piace recuperare anche brani che tengo nel cassetto da venti e più anni e in sette canzoni è presente ancora la mano di Oscar Avogadro, purtroppo scomparso, mentre nelle altre ho coinvolto Andrea Secci e Tullio Pizzorno, per un totale di quindici tracce nella versione CD e dodici in quella in vinile. In generale io non sono un autore di testi, preferisco fare il musicista e con Oscar – che era un numero uno – esisteva una sorta di simbiosi perfetta: conversavamo insieme e lui metteva giù le parole dando vita a una bella sintesi dei nostri pensieri.

L’album presenta canzoni ricche di parentesi strumentali (esempio Faccio finta che ci sei, Countdown e Dimmi chi ha vinto) e nell’insieme suona piuttosto vario…
Certamente si tratta di un disco dove non viene seguita una linea ben precisa, ma per ogni brano ho voluto creare un arrangiamento particolare e diverso. Del resto noto con dispiacere che oggi i dischi sembrano tutti uguali, hanno lo stesso ritmo al quale il pubblico ormai si è abituato. A cominciare dai ragazzini che si distruggono le orecchie con suoni striduli, e non hanno nemmeno più quella cultura dell’ascolto per cui ci si sedeva attenti, avvolti dal suono prodotto da casse con bassi poderosi, e i dischi venivano goduti fino all’esaurimento dei propri solchi.

È anche per questo che hai scelto di uscire con una stampa in vinile?
Credo esista un segnale di un ritorno di interesse per un certo suono antico e bisogna cominciare da questo. Al di là del fatto che il formato dà anche spazio alla bellezza delle copertine, non c’è dubbio che il vinile si senta meglio rispetto a un CD, il suono ha un altro calore, non c’è nulla da fare. Una volta mi sfidarono facendomi ascoltare più volte una stessa registrazione e riconobbi senza problemi il supporto di esecuzione. Non dico che bisogna tornare indietro ma spero (e ritengo) che in futuro si potrà decidere di sentire meglio la musica. E che anche ascoltando Banca d’Italia emerga questo approccio. È un disco che qualcuno ha giudicato ‘vecchiotto ma in realtà molto più ispirato di un prodotto nuovo’. Questo mi ha fatto molto piacere.

Ci puoi raccontare qualcosa in più di te? Quando hai iniziato a suonare la chitarra e hai capito che poteva diventare il tuo mestiere?
Ho cominciato a suonare a dodici anni, nella metà degli anni Cinquanta, a Roma con Enrico Ciacci, il fratello di Little Tony, che veniva a casa e mi dava lezioni, i compiti su cui esercitarmi come Apache (degli Shadows) o i pezzi di Duane Eddy, tornava dopo una settimana e suonavo meglio di lui… A quel tempo frequentavo ancora il liceo scientifico riuscendo a dividermi tra lo studio e la musica senza particolari problemi. Poi passai ai night, con vari gruppi: il primo fu I Campanino, di Napoli (dove militava anche Claudio Mattone, ndr), e ancora con il cantante Mario Perrone, un vero genio, antesignano dello stile di Peppino Di Capri. Quindi mi trasferii a Milano mettendo insieme un quartetto, Simon & Pennies, dove feci evolvere ulteriormente il mio stile e i suoni grazie all’aiuto di uno dei suoi componenti, un ragazzo inglese. Gli inglesi del resto hanno il rock nel sangue molto più di noi. Dopo circa un anno chiamai Franz Di Cioccio ed entrai nei Quelli fino al ritorno di Franco Mussida dal servizio militare. A quel punto il grande impresario Franco Mamone mi diede l’idea di un trio, senza il basso, feci un paio di telefonate e nacque la Formula 3 composta oltre che da me da Tony Cicco (da noi intervistato tempo fa), di cui conoscevo bene il fratello anch’egli batterista, e da Gabriele Lorenzi, che all’epoca militava nei Samurai. Grazie all’aiuto del produttore Gilberto Amati (proprietario del famoso locale l’Altro Mondo di Rimini) che ci fornì strumenti, vitto e alloggio, il posto dove provare, partì la nostra storia e arrivammo al Pipes di Milano in Corso Europa, quasi in pianta stabile.

E poi ci fu l’incontro con Lucio Battisti…
In realtà io lo conoscevo fin da ragazzo, perché da studenti a Roma ciascuno aveva il suo gruppo e capitava di incontrarsi. Quando stavano creando la nuova etichetta Numero Uno ci diede Questo folle sentimento (è il 1970) e da lì come Formula 3 ci affermammo con diversi successi, per circa quattro anni. A un certo punto però la casa discografica e Mogol ritennero che fosse giusto mettere in piedi un super gruppo e provare con un nuovo progetto più internazionale, indirizzato all’estero, che però richiedeva anche grandi investimenti e organizzazione che in realtà non si materializzarono. La band si chiamava Il volo (che oltre ad Alberto Radius e Gabriele Lorenzi includeva anche Mario Lavezzi, Vince Tempera, Bob Callero e Gianni Dall’Aglio), ed è quella in cui ho militato che mi ha entusiasmato di più. Eravamo progressive senza saperlo, realizzammo un paio di album di scarso successo e una sera, dopo un concerto, ci guardammo negli occhi e capimmo che era finita. Probabilmente ci mancava un front-man di un certo tipo. Fossimo partiti un paio di anni dopo forse avremmo sfondato. A quel punto firmai un contratto con la CGD e cominciai a lavorare insieme a Oscar Avogadro, con la supervisione di Daniele Pace. Il primo album da solista che pubblicai con loro fu Che cosa sei al quale seguì Carta straccia (che conteneva la già citata Nel ghetto) che consolidò il successo. Poi tanti altri tra i quali vorrei ricordare anche Leggende, che sebbene meno noto viene ancora menzionato oggi come un disco di qualità. Nel frattempo iniziai a lavorare con diversi artisti che registrarono i propri lavori nel mio studio, come Franco Battiato. Lui ne ha fatti cinque con me – compreso La voce del padrone, breve (circa 30 minuti di durata) ma un concentrato di successi – e ha scritto sotto pseudonimo il mio Gente di Dublino, disco fuori dal mio genere, con testi che mi hanno fatto faticare nel canto, ma che nel contempo mi ha permesso di esplorare situazioni nuove.

Cosa ci puoi dire ancora su Battisti?
Lucio aveva una caratteristica, ossia quella di cantare in modo non melodico bensì tronco, qualcosa di estremamente difficile in quanto frutto di una dote naturale. È come lo swing o il ballo, per cui bisogna essere in grado di andare a tempo. E non era per nulla stonato, semplicemente si esprimeva come sentiva quel momento, quel brano, per cui a tratti preferiva lasciarsi un po’ calante. Un’epoca in cui non esisteva ancora quella macchina che rende intonati… A questo poi Lucio aggiungeva pezzi favolosi dei quali non si può dire quale sia il più bello perché tutti rientravano in un disegno e in un progetto ben inquadrato. Compreso Il leone e la gallina, che si inseriva in un album variopinto (Umanamente uomo: il sogno, del 1972) dove a un certo punto compariva uno scherzo. Credo che se dopo tanti anni si sentono ancora i suoi pezzi una ragione ci debba essere. Non ritengo invece che tra 30 anni le canzoni di oggi verranno ancora ascoltate, essendo senza capo né coda. Le sue comprendono melodie non copiate, al limite ci sono echi di Rossini, Donizetti, ma tutto stava comunque già nella sua testa, e se fosse nato in America avrebbe avuto un successo mondiale. Certo il suo disco in inglese fu un errore perché o si ha una pronuncia perfetta o non si viene per nulla presi in considerazione.

Pensi che oggi si possa ancora innovare qualcosa e come valuti l’ascesa dei talent show (a cui hai dedicato un brano proprio in Banca d’Italia) come mezzo di selezione delle nuove leve? Quanto è effettivamente lo spazio rimasto per emergere grazie al (vero) talento?
I talent show hanno un difetto fondamentale, ossia il fatto di far interpretare pezzi già editi. Da un certo punto di vista i cantanti partono avvantaggiati, ma una volta che devono presentare brani inediti casca l’asino, anche perché oggi mancano gli autori e nessuno si sfracella le meningi a trovare accordi, melodie, a provare e riprovare. La musica oggi è ‘midizzata’, ci sono le basi pronte, si prende un pezzo qui e là, si uniscono e si aggiunge il cantato. Fine. I talent sono produzioni con scenografie studiate bene, dove a un certo punto sembra che sul palco si stiano presentando i Beatles, ma la canzone non è loro… e la gente abbocca. Tanti sono i nomi che poi spariscono, anche se ci sono eccezioni come Marco Mengoni su un gradino superiore. L’originalità si è persa, non essendoci più le case discografiche interessate veramente a scovare e lanciare dei personaggi nuovi. Chiaramente non è un problema solo italiano, ma da noi – a differenza ad esempio degli Stati Uniti o Inghilterra dove certamente i talent non mancano e sfornano un nuovo ‘fenomeno’ da far affermare in meno di un minuto – non esiste un canale alternativo per le vere innovazioni. Si prende un ragazzo solo perché si ritiene che possa vendere, avendo magari gli occhi azzurri e i capelli biondi, e perché piace alle ragazzine. Oltre al fatto che ormai ‘non si dice più niente’, non si esprime il proprio pensiero nelle canzoni. Fronte discografico e di produzione, inoltre, in passato se un album andava male si insisteva, se ne realizzava un successivo e poi un altro ancora. Pensiamo a come operava una figura come quella di Ennio Melis nella RCA. Chiaro che oltre all’ingegno ci vuole anche la forza economica per poterlo fare. Per poter andare in televisione e in radio un tempo servivano circa 100 milioni di lire mentre adesso si parla di circa 200 mila euro di promozione se si vuole pensare a qualcosa di serio. Questo però non conviene più perché la vendita dei dischi è crollata, se pensiamo che un disco d’oro oggi vale circa 15.000 copie vendute (quota per i singoli in digitale, 25.000 è la soglia per gli album, limiti che tra poco verranno innalzati n.d.r). Gli artisti sopravvivono bene grazie ai concerti e il mercato è ormai nella dimensione live. Di soldi ormai ce ne sono molti meno, si pubblica sulle piattaforme digitali sperando che almeno vengano ascoltati per poi poter fare delle serate.

Cosa ne pensi del successo di alcuni cantanti italiani all’estero?

Io penso che gli italiani in generale non siano nati per essere internazionali, per cui solo una minima percentuale riesce ad avere un certo successo. Certo nei Paesi Latino-Americani è più semplice perché comunque fanno parte dello stesso mondo. Poi ci sono cantanti che ad esempio in Russia hanno capito già anni fa che facendo promozione televisiva e facendosi conoscere potevano arrivare al grande successo. Se devo citare un nome italiano che ha comunque ottenuto un grande riscontro internazionale, anche per bravura, è Umberto Tozzi. Poi si può parlare di fenomeni come Giorgio Moroder, una persona nata con i successi nel sangue.

Qual è in definitiva la formula del successo?
La passione è la cosa più importante. E poi ci vogliono fortuna, denaro e salute con percentuali che variano a seconda dei casi. Sono stato fortunato perché non ho mai lavorato in vita mia, perché il mio lavoro è anche il mio hobby. E anche il mio cognome è un segno del destino, e ce l’ho fatta non per bravura ma per volontà di fare. In questo momento, dopo aver venduto il mio storico studio, sto allestendo una nuova sala di registrazione e non vedo l’ora di finirla. Ho composto un trio nuovo, con uno spettacolo con atmosfere anche più teatrali. Io mi diverto ancora, mi piace suonare, vado in giro a comprare amplificatori e chitarre (ne ho una settantina). Morirò con la chitarra in mano.

Intervista di Paolo Morati, in esclusiva per Indiscreto

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