Vivere alla Bum Phillips

12 Ottobre 2011 di Stefano Olivari

di Tani Rex
Quando il direttore di Indiscreto ci anticipò un anno fa che stava per pubblicare un libro di Roberto Gotta sul football ci incuriosimmo subito. Pur avendo sempre letto gli articoli su Espn.com e sul suo blog, mai ci era capitato tra le mani un suo scritto cartaceo. Non siamo abbastanza tifosi di football da essere interessati alle storie di personaggi e squadre dei quali conosciamo solo il nome o poco più, probabilmente se questo libro fosse stato scritto da un altro autore e pubblicato da un editore diverso nemmeno avremmo pensato di comprarlo.

Confessiamo che l’abbiamo comprato per l’incondizionata stima verso l’editore (che ci pubblica senza falsi imbarazzi: chi non è d’accordo con quello che stiamo scrivendo può/deve intervenire liberamente) e l’autore, ma la stima per loro non sarebbe da sola bastata a “costringerci” a scrivere due parole sul libro. Parole di cui ci prendiamo la responsabilità, pubblicandole adesso che a oltre quattro mesi dall’uscita non possiamo in maniera ‘marchettara’ influire sulle vendite: chi è interessato alla materia ha già comprato il libro e chi non lo è non lo farà mai, questo sostiene l’editore (secondo me sbagliando, perché questo libro durerà nel tempo). E’ stata la sensazione che abbiamo provato una volta finito di leggere. Quella che si prova quando, seduti la sera sulla spiaggia ormai vuota, tra una birra e l’altra, ascolti il racconto di un amico e capisci dal suo sguardo perso mentre ti parla di college americani, di Super Bowl, di Csonka ed Earl Campbell, che lui sta vivendo quelle storie mentre le racconta. Con cuore e passione.
“Football & Texas” non è un semplice libro sul football. E’ un lungo racconto della cultura e del costume di quell’affascinante luogo chiamato Texas. Un racconto che prende come spunto la vera religione texana, il football, per raccontare un mondo che in Italia o è sconosciuto, o è conosciuto male. A chi si prepara a leggere solo un’antologia dei personaggi legati al football, consiglio di non disturbarsi nemmeno. Per quelle ci sono infiniti blog. Come scrive l’autore, il libro è “…una sospirata lettera d’amore a una disciplina per la quale ho fatto quel che difficilmente avrei fatto per altre”. Frutto di un lavoro meticoloso e lungo (iniziato vent’anni fa), il libro è un intreccio di storie di luoghi e persone. Luoghi sconosciuti ai più, come Allen con il suo nuovo stadio da 18.000 posti per una squadra di high school in una città di 85.000 abitanti, e persone che con la loro storia di vita sono una perfetta serie di fotogrammi del mondo e del costume americano.
Tra le storie dei vari personaggi, ci ha colpito quella di due uomini su tutti. Antitetico l’uno all’altro. Uno è Jerry Jones, secondo Gotta “uno dei personaggi più innovativi, controversi, abili e malvisti del quarto di secolo più recente della storia del football”. Tra la decisione di licenziare una leggenda dei Dallas Cowboys come Tom Landry, la visione diversa che aveva del “prodotto” NFL, la sua spudoratezza nel cambiare vecchie abitudini del mondo del football, Jones è l’incarnazione del capitalista (si può usare ancora per un po’ questa parola) americano tipico. Uno che per sua natura vuole “sfidare tutto e tutti”. Anche a costo di rendersi antipatico, odioso, nemico, cinico, caratteristiche che del resto è spesso difficile dissociare da personaggi che hanno avuto successo nel mondo degli affari lasciando ai margini della strada concorrenti feriti nell’anima e nel morale.
L’altro è “Bum” Phillips, l’allenatore che per i canoni italiani sarebbe considerato un perdente. Scrive Gotta: “Bum fu un innovatore, ma non tutti lo sanno: e qui è certamente la sua personalità cosi rilassata e cosi facile all’approccio ha lavorato contro di lui. Avrebbe dovuto darsi arie, montare un mito di superiorità distante e malvagia, farsi passare per “maledetto” come fanno alcuni furboni per acquisire le simpatie dei poveri di spirito e delle quarantenni”. Phillips può essere considerato, senza rischiare di cadere negli stereotipi, il texano per eccellenza, “cappello da cowboy sempre in testa, stivali da vaccaro, cinturone con fibbia extra-large, taglio di capelli cortissimo, camicie di tonalità vaganti tra il pastello incrociato e il colorato a quarti, proprio di chi vuole imitare gli eroi involontari di tanti film: solo che Bum quando si vestiva cosi non recitava ma era se stesso, era suo padre, era suo nonno, era reale più ancora che realistico, perché quella sorta di divisa era semplicemente tutto ciò che aveva sempre conosciuto.”
Dopo aver letto il libro, abbiamo avuto la fortuna di incontrarlo, Roberto Gotta. La nostra stima non ha fatto altro che crescere dopo quell’incontro, ma non è nostra intenzione fare sviolinate: viviamo a Toronto e non c’entriamo con il giornalismo, ma ci piace leggere cose interessanti in lingua italiana. E non è che ce ne siano molte, in ambito sportivo… Vorremmo consigliare a Roberto lo stesso comportamento che lui, ironicamente, si augura per Bum Phillips, ma sappiamo che non ci ascolterà.

Tani Rex
(Toronto, 12 ottobre 2011)

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