Tony Parker: The final shot

6 Marzo 2021 di Stefano Olivari

Tony Parker: The final shot era un documentario per noi imperdibile, fra le mille proposte di Netflix, vista la passione che abbiamo sempre avuto per il fuoriclasse francese che nei San Antonio Spurs di Popovich e Duncan è stato tutto: ragazzino (ci arrivò a 19 anni, nel 2001) di talento ma non proprio un predestinato, scelto al numero 28 al draft, playmaker assaltatore per molti anni, con la regia affidata a rotazione ad altri, leader tecnico ed emotivo nel quinto (per lui quarto) titolo del grandissimo ciclo Spurs, unico europeo insieme a Nowitzki ad avere vinto un anello NBA da stella della squadra.

Cosa ci è piaciuto di Tony Parker: The Final Shot? Il fatto che il regista, Florent Bodin, abbia rispettato i sentimenti del campione, mettendoci tanta Francia, nei momenti belli e in quelli amari (fra questi la finale per il bronzo a Euro 2003, la partita-manifesto dell’Italia di Recalcati), nonostante nel mondo si venda ovviamente meglio la pallacanestro NBA. Del resto il documentario è Parker che racconta la sua vita, impossibile andare contro la sua anima profondamente francese nonostante la residenza principale della sua famiglia sia rimasta San Antonio (la seconda è Lione) anche dopo il ritiro. Con gli amici veri che sono quasi tutti francesi, anche quelli extrabasket come Thierry Henry.

Cosa non ci è piaciuto di Tony Parker: The Final Shot? La superficialità con cui è stata trattata la parte di Parker bambino, che non si può ridurre a qualche filmato d’epoca. Sarebbe infatti stato molto interessante capire la genesi del patriottismo di questo campione, visto che è nato in Belgio da padre statunitense e madre olandese. Raramente un ‘international’ della NBA ha mostrato tanta devozione verso la sua nazionale, senza contare la proprietà e la gestione di un grande club come l’ASVEL (per quelli come noi sempre Villeurbanne) e tante altre iniziative in Francia.

In Tony Parker: The Final Shot è quasi stato nascosto il primo matrimonio, quello con Eva Longoria, che ha reso Parker anche un personaggio pop ed in generale non viene proposta una dimensione extrabasket (magari anche falsa) del giocatore, deludendo un po’ chi lo ha visto giocare 1000 volte e sa benissimo che all’inizio Popovich non gli parlava nemmeno, l’etica del lavoro, eccetera eccetera. Di certo è un documentario che ha il dono della sintesi, un’ora e quaranta minuti, perché di serie stiracchiate per ammortizzare i costi non ne possiamo più, e che rappresenta un bel racconto dei primi 40 anni di Tony Parker, con le testimonianze fra le altre di Duncan, Ginobili e Bowen. Con il pensiero che i secondi quaranta, in altri ruoli, potrebbero essere anche meglio perché difficilmente la NBA potrebbe proporre un personaggio più positivo di lui, vero eroe dei due mondi.

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