Anni Ottanta

The Americans 6, la giusta fine (contiene spoiler)

Indiscreto 24/07/2018

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Quasi mai una serie televisiva finisce al momento giusto, ma con The Americans è successo. Le due ultime pirotecniche puntate della sesta stagione, andate in onda su Fox, hanno definito il futuro della famiglia Jennings oltre che quello del mondo. Sì, perché Philip ed Elizabeth pur essendo all’inizio su sponde opposte (il marito, ormai uscito dal KGB, è pro Gorbaciov, mentre la moglie è più per la vecchia Unione Sovietica) trovano il modo per fare, insieme, la differenza sventando un complotto mirante a screditare e sostituire il leader della perestrojka e della glasnost. Il finale, grandioso e commovente, rimarrà nella piccola storia della televisione.

Anche l’ultima stagione di una delle più belle serie televisive di tutti i tempi non ha deluso, puntando più sulla politica che sull’azione: siamo nel 1987 e l’URSS si sta dissolvendo, nonostante i cremlinologi (chi se li ricorda?) non se ne stiano accorgendo. Gorbaciov però sì e pur da uomo di apparato decide di guidare la transizione con il tiepido sostegno dell’Occidente, che dall’esistenza del blocco sovietico ha in realtà molti vantaggi (ce ne stiamo accorgendo meglio adesso), e l’opposizione di tutti i poteri forti in patria. Inutile ripercorrere la storia di quegli anni, che l’uomo Indiscreto conosce perfettamente (non fosse altro che per Protasov e Zavarov), fondamentale per capire quanto sarebbe accaduto nel 1991 oltre al palo di Rizzitelli, ma grande trovata quella di farla incrociare con le vicende e i travagli interiori dei Jennings, stritolati da conflitti di lealtà e sensi di colpa nei confronti dei figli: la consapevole Paige, anima divisa in due, e l’americanissimo Harry. Rispetto alle stagioni precedenti molta politica, come detto, ma anche molta musica quasi sempre ben scelta: in certi punti si era ai confini di Miami Vice (ma lì non accadeva davvero niente, con Sonny e Rico che camminavano mezzora sulla spiaggia o giravano in Ferrari), perfetto però il momento in cui è stata inserita Brothers in arms.

Al di là della trama, che tutti gli appassionati conoscono, è molto piaciuta in questa stagione l’evoluzione di Philip: schifato da ciò che ha dovuto fare come agente sotto copertura per quel KGB che gli ha rubato la vita, deluso dall’Unione Sovietica ma anche leale nei suoi confronti, desideroso di integrarsi come imprenditore nella sua nuova patria ma travolto dalla realtà di un capitalismo che trasforma in servi anche chi pensa di essere dalla parte giusta della barricata (lui ha un’agenzia viaggi che cerca di ingrandire con esiti fallimentari). Elizabeth è più ottusa nei comportamenti quotidiani ma è anche più idealista, dura con se stessa e con gli altri come quando sfotte il marito e i suoi corsi motivazionali per sfigati: né lei né Philip sono ‘buoni’ in senso drammaturgico, anche se poi tutti tifavamo perché riuscissero a mettersi in salvo.

I buoni sono i comprimari come Stan, l’agente FBI che fuori tempo massimo scopre che i suoi vicini di casa sono spie, e Burov (l’attore, Costa Ronin, è anche in Homeland che fino a due settimane prima era in onda prima di The Americans generando la solita confusione: d’accordo che è russo, ma non è che tutti i russi debbano essere interpretati da lui così come i mafiosi non possono essere un monopolio di Tony Sperandeo), ex diplomatico convinto che Gorbaciov possa essere la salvezza non dell’Unione Sovietica, ormai finita, ma dei sovietici. Il finale, con la separazione fra genitori e figli, è tutto sommato aperto. Ma è difficile dire e dare di più, a meno che Mikhail e Nadezhda diventino sostenitori di Eltsin o di Putin. In fondo lo speriamo: occhio alla perestrojka, quindi. Livello comunque altissimo.

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