Lo scudetto di Gentile

13 Luglio 2014 di Stefano Olivari

Dire che Alessandro Gentile era un predestinato è una frase così fatta da risultare falsa, perché lo sport agonistico è pieno di figlio d’arte che hanno fallito. Soprattutto figli di campionissimi come papà Nando, classe 1967, esordiente in serie A a 15 anni (!) nella stagione 1982-83, protagonista assoluto dello storico scudetto 1990-91 di Caserta e vincitore di tantissime altre cose in Grecia e in Italia: fra queste una Coppa dei Campioni con il Panathinaikos e quello che è diventato il penultimo scudetto di Milano, 18 anni fa, nella stessa società dove oggi gioca Alessandro (ai tempi Stefanel, oggi EA7 Emporio Armani) e dove ha giocato il figlio maggiore Stefano, 25 anni, autore anche lui di un grande campionato di serie A con la maglia di Cantù. I Gentile sono insomma una delle famiglie d’oro dello sport italiano: fra i Mazzola, i Maldini, i Mangiarotti, gli Abbagnale ci stanno benissimo. Ma fuori dal campo sono relativamente poco conosciuti, così AM ha voluto sapere qualcosa in più rispetto all’attualità cestistica.

Del giocatore Alessandro Gentile si sa quasi tutto, dell’uomo quasi niente. Quando lei ha pensato di avercela fatta, che il suo lavoro sarebbe diventato la pallacanestro?
Non c’è stato un momento preciso, per questa consapevolezza. Faccio ancora fatica a rendermi conto di quanto sia successo negli ultimi anni. A dirla tutta, pur dedicandomi tutto il giorno al basket faccio fatica a considerarmi un professionista.

Lei è andato via di casa prestissimo, rispetto agli standard italiani. A 14 anni era nelle giovanili della Virtus Bologna, a 15 a Treviso. Si sentiva diverso dai coetanei?

No, perché sia a Bologna che i primi tempi a Treviso ero l’ultima ruota del carro e non certo un protagonista. Infatti sia a Bologna che a Treviso conservo ancora oggi molte amicizie al di fuori del basket.

Quando si parla di Alessandro Gentile vengono immancabilmente citati suo padre Nando e suo fratello Stefano, noi non facciamo eccezione. Sua madre Maria Vittoria è contenta di avere in famiglia solo professionisti del basket?
Sono contento di parlare di mia madre, perché è il perno della nostra famiglia e non le si danno secondo me sufficienti meriti. È lei che ci tiene uniti e che si occupa di tutto quello che c’è nel mondo reale, quello fuori dal campo, dalle grandi alle piccole cose. Per noi è fondamentale.

Non ha mai pensato di scegliere un altro sport, per non essere etichettato come ‘Figlio di Gentile’?
Ho praticato nuoto, hockey su prato, calcio… mia madre, vedendomi pigro, mi spingeva ad uscire di casa con ogni pretesto. Il basket è arrivato dopo, con naturalezza. Forse è stato importante quel canestrino che avevo in camera, quando dalla Grecia siamo tornati a vivere in Italia…


Che studi ha fatto?

Non sono mai stato uno studente modello, ho fatto il possibile. A Imola ho iniziato il liceo scientifico, poi ripreso a Treviso. Alla fine sono passato a una scuola privata e adesso ho la maturità linguistica.


Cosa farebbe adesso, a 22 anni, se non esistesse la pallacanestro?

Farei l’università e sarei preoccupato per il mio futuro, vista la difficoltà nel trovare lavoro oggi.

È contento di essere uno dei pochi giocatori della serie A riconoscibili per strada, anche dai non esperti di basket?
Onestamente sì, essere riconosciuti e osservati è un piacere. Come dice il proverbio? Bene o male, purché se ne parli…

Ci racconti la sua giornata tipo…
Mi sveglio ad un’ora che cambia di giorno in giorno, dipende se c’è o no allenamento al mattino. Pranzo, poi allenamento e ritorno a casa. Televisione, i miei programmi preferiti sono quelli di cucina, oppure cena fuori o a bere qualcosa con gli amici.


Nello sport agonistico può esistere l’amicizia?

È difficile, perché quella convivenza forzata e quotidiana di 5 o 6 ore non può essere definita amicizia. Puoi stare più o meno bene e scherzare con un compagno di squadra, ma le amicizie vere sono quelle che resistono alla prova del tempo.


A Treviso la fermavano per strada più che a Milano?

Sicuramente. In una città grande è più difficile che gli appassionati di basket ti incrocino. Ma anche a Milano ho buoni riscontri.


Per quale squadra di calcio lei tifa? Ha mai invidiato un calciatore?

Nel calcio non tifo per nessuno, ho giusto una simpatia per il Napoli. Di sicuro non ho mai invidiato un calciatore: il gioco può piacere, pur non essendone io un grande appassionato, ma l’ambiente del calcio italiano mi sembra sporco.

Quali sono le sue idee politiche?
Non ho mai seguito la politica, in ogni caso sono contro gli estremismi. Se però uno sportivo ha idee precise in materia penso che abbia il diritto di rivelarle senza essere per questo criticato.


Nel basket l’hip hop, nelle cuffie e a bordocampo, è obbligatorio?

A me piace, ormai è diventato la colonna sonora della vita di tanti ragazzi. Non è comunque l’unica musica che ascolto.

Il caso Sterling ha fatto parlare del razzismo nella NBA. E in Italia?
La discriminazione è ovunque, non si limita al colore della pelle. È anche fra Nord e Sud, o fra città rivali: a me sui vari campi hanno gridato di tutto.

I giornalisti l’hanno raccontata in maniera corretta?

Non sempre, anzi direi raramente. Ma fa parte del gioco, almeno fino a quando non si va sul personale.

C’è il mito che i giocatori di basket abbiano un grande successo con le donne…

Ecco, appunto, è un mito. La mia fidanzata quando ci siamo conosciuti non sapeva nemmeno che giocassi…

Dove vorrebbe vivere, se fosse straricco e libero da impegni?

A me piacciono le città grandi. Mi trovo bene a Milano, mi troverei bene a Istanbul. Poi posso anche sognare posti esotici o piccoli paesi, ma preferisco la vita in una città.


Quali poster c’erano nella sua camera di bambino?

Tantissimi. Quelli a cui ero più affezionato erano Kobe Bryant e un LeBron James a grandezza naturale.

Sogno romantico: Alessandro Gentile compagno di squadra di Stefano, con Nando allenatore. Magari a Caserta…
A Caserta la vedo difficile… Comunque c’è stata davvero la possibilità di giocare con Stefano, l’anno scorso sembrava stesse per tornare a Milano. Mai dire mai.

Sul risultato incidono di più gli arbitri o gli allenatori?
Gli arbitri possono sbagliare anche tanto, negli anni passati alcune decisioni le ho prese davvero male. Ma per quello che ho visto sul campo contano molto di più gli allenatori e ciò che trasmettono.

Quali sono i suoi difetti come persona?
Per carattere cerco sempre di essere disponibile, al limite dell’affettuoso. Ma l’altra faccia della medaglia è che sono un po’ vendicativo e non dimentico i torti subiti.


Cosa accadrebbe, incrociando Stonerook per la strada?

Niente di violento, credo. Ma di sicuro non sarei così ipocrita da salutarlo e abbracciarlo.


Che obbiettivi si è posto, per la carriera?

Migliorare il più possibile tecnicamente e come lettura del gioco, ma soprattutto alzare più trofei possibile. Possiamo raccontarcela, ma alla fine sono le uniche cose che ti rimangono.

Fra vari decenni lei sarà un uomo felice se…
Sono cresciuto in una famiglia molto unita, il mio modello è questo. Mi rendo conto che al giorno d’oggi, dove tutto può cambiare in pochi secondi, sia difficile arrivare a una situazione come la nostra. Ma ci spero.

(pubblicato sul magazine AM uscito il 5 luglio 2014)

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