Sbavando per Antetokounmpo

1 Maggio 2023 di Stefano Olivari

I grandi media, ma soprattutto anonimi blogger che dalla loro cameretta (pur avendo 43 anni mal portati) di Carugate o di Bisceglie spiegano a ESPN i retroscena delle trade dei T-Wolves, in questi giorni sono in piena erezione per Giannis Antekounmpo. Non per le prodezze del campione greco, che due anni fa ha trascinato al titolo i suoi Milwaukee Bucks e che nel mondo FIBA (cioè con l’area piena e un arbitraggio tecnico) viene spesso ridimensionato insieme ai suoi 7-8 passi dopo il mitico gather step, ma per le sue parole in seguito all’eliminazione da questi playoff, commentate in tutto il mondo e fatte proprie anche al di fuori della pallacanestro.

Cosa ha detto di tanto intelligente Antetokounmpo? Ha spiegato, in sintesi, che la sconfitta non è un fallimento e che nello sport non esiste la logica del fallimento e che la sconfitta è un passaggio obbligato per chi vuole vincere. Insomma, una versione greco-americana dell’orrido ‘O vinciamo o impariamo‘ che i maestri di calcio dispensano ai loro fedeli. Peccato che il fallimento non sia un concetto assoluto, ma in proporzione agli obbiettivi: se il Real Madrid perde con il Cuoiopelli o il Gelbison, o nella Liga arriva dietro al Getafe, è un fallimento. L’Udinese che sta a metà classifica con il ventesimo monte ingaggi della Serie A è un successo, non un fallimento. Quanto alla vittoria, vince soltanto uno e se quattro sono forti uguale è logico che alla fine uno arrivi quarto, non per questo va denigrato. Banalità, cose che sanno tutti? Lo pensavamo, sbagliando.

Se i Bucks teste di serie numero uno vengono eliminati subito dagli Heat, che nella stagione regolare hanno vinto 14 partite di meno, non sarà un fallimento ma nemmeno una sconfitta da accettare fischiettando: se vincere è la stessa cosa che perdere, cosa ce ne frega di seguire le partite di Antetokounmpo? Il quale ha involontariamente spiegato perché la NBA sia sempre meno guardabile (se non importa a voi perché dovrebbe importare a noi?), anche se ieri sera abbiamo devotamente seguito ogni azione di garasette fra Warriors e Kings. A questo treno di neosportività si sono ovviamente agganciati anche quelli per cui fino a ieri ‘Vincere è l’unica cosa che conta’, fra le ovazioni del canottierato ruttante (cioè noi), su tutti un Allegri che fino davvero a due mesi fa avrebbe riso in faccia a questi neo-guru.

La questione più interessante non è però il giustificazionismo di un giocatore deluso, che magari dopo il prossimo trionfo pretenderà la statua equestre, ma il motivo per cui guardare lo sport. Se chi lo pratica ci  tiene a vincere è interessante anche un torneo aziendale, se invece il risultato è un dettaglio non ci importa niente nemmeno di Wimbledon o della NBA. Borg ha più volte spiegato di essersi ritirato da numero 2 del mondo non perché i soldi o altre vittorie (il Roland Garros lo avrebbe potuto vincere per altre 5 edizioni) gli facessero schifo, ma perché non gliene importava più niente di vincere o di perdere. Tutto era diventato un’esibizione e allora lui fece direttamente soltanto le esibizioni. Più in generale, non c’è un valore intrinseco in ragazzi che corrono dietro a un pallone, vanno in bici o tirano una pallina: li amiamo soltanto quando sentiamo che ci rappresentano, che tengono a ciò che fanno. Poi possono anche perdere, ma non dire che è uguale.

stefano@indiscreto.net

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