Quando eravamo Tacchini

6 Dicembre 2012 di Fabrizio Provera

Maledetta crisi. E maledetta la nostra smania compulsiva da ricerca delle ultime notizie su questi dannati smartphone. Stamani, mentre guidavamo felici tra le campagne del Parco Agricolo Sud della campagna ad ovest di Milano- con un cielo all’orizzonte così bello che ci siam detti ‘’Ma che diamine vado a fare a Bisceglie, prendo la Milano Genova e me ne vado a Portofino, annesso pranzo da Puny con vista mare’’- ci fermiamo ad un semaforo e leggiamo la tremenda notizia: Sergio Tacchini chiude per sempre le unità produttive di Caltignaga, Bellinzago, Novara e Castelletto Ticino. Acquisito da un marchio cinese, i dipendenti rimasti (42, contro i 280 del passato) saranno messi in mobilità. La produzione delocalizzata, il nome cancellato dalle brume novaresi dove da adolescenti facevamo incetta di magliette e pantaloncini a buon prezzo (il pomeriggio andavamo allo spaccio di Caltignaga, diremmo se avessimo la prosopopea di uno Scalfari).

Con Sergio Tacchini scompare, quanto meno dall’Italia, un marchio legato a quel tennis d’antan che tutti noi nostalgici, a partire dal sottoscritto che negli anni Ottanta era un agonista non di talento (con meno anni e soprattutto meno chili), abbiamo sempre considerato ontologicamente superiore a quello odierno. Noi Indiscreti nostalgici di Tacchini e del suo testimonial più sopraffino, John McEnroe, con l’incedere da genio scapigliato della racchetta, le finali con Bjorn Borg a Wimbledon, la Donnay in legno di Borg. A proposito di Donnay in legno: il nostro maestro più talentuoso (tennista dal buon passato, qualificazioni a Montecarlo nel 1984 e una vittoria contro Mats Wilander nel 1981), nel 1989 ce le fece provare una sola volta, visto che la conservava come una reliquia: vi assicuro che fare il fenomeno con quel pezzo d’antiquariato tennistico non era affatto facile.

Con l’addio a Sergio Tacchini muoiono un po’ anche tutti i ricordi legati a Miroslav Mecir, a Stefan Edberg, a Bobo Zivojinovic (perennemente distratto dalle mutandine delle spettatrici in prima fila, godereccio e bon vivant), agli arrotini con una dignità  come lo svedese Kent Carlsson (visto dal vivo all’epico torneo di Saint Vincent, dove si ritrovava il jet set valligiano negli anni Ottanta: l’assessore al Turismo era un amico socialista, che portò in Valle una ventata di Dolce Vita tennistica: finita la ventata, sono rimaste solo polenta, fontina e carbonada) o l’austriaco Thomas Muster. Oggi ci restano solo flashback del passato: la decadenza cominciò quando Ivan Lendl da Ostrava calzò delle Mizuno, un affronto a tutti noi che concepivamo solo Adidas, specie sulla terra rossa.

Cosa ci rimane, allora? I ricordi delle telecronache di Tommasi e Clerici, e il cazzeggio colto/tennistico di pochi altri. Tenetevi i vostri Del Potro, Tsonga e Wawrinka, e non cercate di ammansirci col talento smisurato di Roger Federer, immenso ma non sufficiente a bilanciare la decadenza indotta dalla scuola Bollettieri e dal fatto che sui campi da tennis si vedono sempre meno coccodrilli della Lacoste, e sempre più giocatori che sembrano usciti da un centro sociale. Al diavolo, voi modernisti della racchetta. Noi ci teniamo stretti i ricordi: Sergio Tacchini, John  McEnroe, Bjorn Borg e già che ci siamo Loredana Bertè, che ai tempi del flirt con lo svedese cantava capolavori come Jazz, grazie alla mano di Ivano Fossati. Oggi tutti voi, convinti assertori del modernismo, avete Amici, X Factor, Giusy Ferreri e le sorelle Williams. Andate tutti a scoa’ el mar, come disse il grande Gioanbrerafucarlo..

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