Occhi colonialisti

7 Settembre 2007 di Stefano Olivari

Senza partite da vedere, partite di cui scrivere, famiglie da sopportare, l’unico pomeriggio veramente libero del nostro 2007 è stato impiegato nell’andare al cinema. Accettando il cuoriano ‘chi se ne frega’, dobbiamo dire che non ce ne siamo pentiti, visto che The Great Match è una delle migliori opere con il Mondiale come pretesto che siano mai state concepite. Questo nonostante l’idea di partenza di non sia stata di sicuro originale: cioè raccontare il più grande evento del pianeta non con le immagini di gioco, ma attraverso le vite di alcuni dei miliardi di suoi spettatori. Ad essere unico in questo caso è il taglio, privo di quegli inni alla gioia e alla fratellanza universale che ammorbano anche i lavori più riusciti. The Great Match è tre film in uno: tre storie ambientate in Mongolia, in Amazzonia e nel Sahara. Cosa unisce i cacciatori, gli indios ed i tuareg? O, se preferite, la steppa, la foresta ed il deserto? Non tanto la passione per il calcio, quanto la percezione dell’importanza dell’evento e l’insopprimibile desiderio di assistervi. Considerando come il peggiore degli incubi l’ipotesi di essere lontani da un televisore o, peggio, che subito dopo il fischio d’inizio della finale si scopra che il televisore non funziona o che l’antenna prende male: siamo sinceri, chi di noi non ha mai pensato una cosa simile? Finendo magari come il Fantozzi che durante Inghilterra-Italia chiedeva informazioni sulla partita a sconosciuti, ricevendo pugni o descrizioni dei gol segnati da Zoff di testa. Il film del documentarista (il registro stilistico, astuto, è infatti quello del documentario, ma in realtà si tratta di fiction pura) Gerardo Olivares è ambientato in un giorno ben preciso: il 30 giugno 2002, finale Brasile-Germania, arbitro Collina, eccetera. Si parte con le montagne dell’Altai, in Mongolia, con flash sulla vita di una famiglia di cacciatori nomadi, per poi andare nel deserto del Tenerè, in Niger, dove un gruppo di tuareg incrocia un autobus pieno di umanità apparentemente non interessata al calcio, e poi in Amazzonia presso una tribù che vive a ridosso di una segheria dove lavorano ‘bianchi’, con l’indio leader che indossa una maglia sgualcita di Ronaldo, avamposto di una civiltà che ha lo sport come sua manifestazione più visibile e più vera. Il vero avamposto della civiltà occidentale è però l’apparecchio televisivo: in tutti e tre i casi anziano, da Italia inizio anni Settanta, con antenne improbabilissime. Nel dare importanza ad ogni immagine nitida c’è tutto un rapporto fra stupore e tecnologia che nessun tivufonino ormai riesce a darci. Insomma, diciamo che è impossibile non guardare questo film con occhi un po’ colonialisti, anche quando si è animati dalle migliori intenzioni. Il cuore viene scaldato dal fatto che tutti si percepisca allo stessa maniera l’importanza dell’evento: un apparecchio a valvole in questo senso è uguale all’ultimo dei plasma. Un film corale che racconta alla perfezione il cortocircuito e la sostanziale incomunicabilità fra le varie civiltà, dovuta anche al diverso rapporto con la tecnologia. Insomma, anche in questo caso il calcio è solo un pretesto per raccontare altro: mondi distanti, non solo nello spazio o banalmente nelle possibilità tecniche, ma nel tempo. I due gol di Ronaldo non sono stati uguali per tutti. Peccato che il film, in quelle poche sale italiane in cui è uscito, sia durato pochi giorni: gli esercenti giustamente fanno il loro mestiere (in sala eravamo in sette), ed in fondo per riflettere sulle differenze c’è sempre tempo. Più comodo pensare che il calcio renda tutti fratelli, come insegnano nel grande libro degli editoriali. In ogni caso, se riuscite a scaricarlo da qualche parte…
Il calcio sarà anche una religione, ma l’adorazione dei trofei ispira sempre un certo imbarazzo, anche quando si tratta della Coppa del Mondo. Ricordiamo come fosse oggi quella puntata del Processo del Lunedì, qualche settimana prima di Italia Novanta, in cui la Coppa Fifa venne portata in studio da una hostess, scortata da due carabinieri in alta uniforme, ed osannata in maniera grottesca dal pubblico biscardiano che anni più tardi si sarebbe specializzato in cartelli di culto tipo ‘Arbitri, ora basta!’, annuendo alle considerazioni di Baldas e ridendo alle battute di Moggi. Predichiamo bene, ma non abbiamo resistito all’esposizione della Coppa oggi a Palazzo Marino, sede del Comune di Milano. Quasi tutti sanno che lo scultore è Silvio Gazzaniga, il cui progetto fu approvato dall’allora presidente Fifa Stanley Rous (la sua era sarebbe terminata nel 1974, con l’elezione di Havelange) dopo che la Coppa Rimet, la Nike di Samotracia rielaborata dal francese Abel Lafleur, era stata assegnata definitivamente al Brasile dopo Messico 1970. Dalle mani del milanese classe 1921 Gazzaniga, che abbiamo sentito nominare per la prima volta nell’immortale Manuale del Gol di Vezio Melegari e visto per la prima volta in una puntata dell’indimenticato Sciagurato Egidio, su Sky, sono nate anche la Coppa Uefa, la Supercoppa Europea (da milanista avrà gradito la recente premiazione), il trofeo per l’Europeo Under 21 e tanti altri trofei di minore notorietà. Cinque chili d’oro su cui ad ogni edizione viene inciso il nome della squadra vincente: essendoci diciassette spazi ed essendo stati giocati dal 1974 ad oggi 9 Mondiali, fra una trentina di anni ci si porrà il problema di come sostituire questi cinque chili di oro, di storia e di gloria. Davanti ai quali ci siamo entusiasmati esattamente come quel pubblico del Processo…
Tornando per qualche riga sulla prima coppa, intesa com trofeo fisico, del mondo, visto che non si tratta del Birra Moretti ci sembra giusta un’osservazione. Questa coppa viene chiamata ‘Coppa Rimet’ a prescindere, nelle varie rievocazioni storiche (sempre copiando il bigino di quattro anni prima), quando solo nel 1946 prese questa denominazione: con Rimet fra l’altro ancora in vita, visto che sarebbe rimasto in vetta alla Fifa fino al Mondiale del 1954. Insomma, dire che l’Uruguay di Scarone o l’Italia di Meazza abbiano vinto la Coppa Rimet è falso, prima ancora che sbagliato.
Come approssimazione e tempi ristretti Sudafrica 2010 minaccia di fare peggio dell’edizione montezemoliana, in proporzione alle aspettative la peggiore di sempre (e non parliamo delle partite…). Con la Fifa in pressing per la situazione stadi, di cui almeno cinque dovranno essere in condizioni perfette per la Confederations Cup 2009 (con in campo anche l’Italia di Lippi o Capello), l’ultima trovata del comitato organizzatore è stata quella di una festa per i mille giorni al Mondiale, sabato 15 settembre: previste a Pretoria una serie di iniziative e baracconate, ma in sostanza la costruzione degli stadi sta andando a rilento. Il vero punto della situazione si farà il 27 novembre prossimo a Durban, in occasione del sorteggio per i gironi preliminari, ma se la storia insegna che gli impianti in un modo o nell’altro riescono ad arrivare all’appuntamento (nella prima edizione, Uruguay 1930, si iniziò a giocare con lo Stadio del Centenario non ancora terminato) non altrettanto si più dire delle mitiche ‘infrastrutture’. Non è un caso che il preoccupatissimo Blatter abbia spedito qualche giorno fa una delegazione nello Zimbabwe, per valutare la capacità ricettiva delle locali strutture turistiche. L’ambizione dichiarata dell’ex Rhodesia è infatti quella di ospitare molti dei ritiri delle nazionali impenate nella Coppa e proprio per questo un politico locale ha scarrozzato gli uomini Fifa per alberghi, dai tre stelle in su, e strutture sportive. I pregiudizi ci dicono che un tre stelle ad Harare, Bulawayo e Victoria Falls non sarà esattamente come un tre stelle a Canazei, ma se il Sudafrica non avrà un cambio di passo in qualche modo i tifosi bisognerà pure ospitarli. Lo Zimbabwe ha promesso investimenti turistici rilevanti, per rilanciare un’economia a pezzi e dare un pennellata all’immagine di uno dei peggiori governi del pianeta, quello di Robert Mugabe: con un’inflazione

superiore a quella della Repubblica di Weimar, diritti civili sotterrati, quasi il novanta per cento di disoccupazione, miseria diffusa ed un razzismo di stato ignorato dai media euroamericani (forse perché rivolto contro i bianchi), l’anziano dittatore spera che qualche resort gli ripulisca l’immagine. Tanto, come sostengono molti direttori importanti, le notizie dall’estero non interessano…
Le qualificazioni mondiali sono comunque già iniziate, nelle isole Samoa, con una specie di girone preliminare oceanico che porterà al girone di qualificazione mondiale vero e proprio tre squadre. Sicure del passaggio del turno le finaliste Figi e Nuova Caledonia, mentre il terzo posto sarà dato dall’apposita finale, fra le Isole Solomon, migliore squadra fino alla semifinale, e Vanuatu. Fra poche ore sapremo. Competizione affascinante, questi South Pacific Games, seguita solo attraverso frammenti web (nel sito Fifa nemmeno highlights), fra dieci nazionali modeste di cui una (Tuvalu) nemmeno facente parte del mondo Fifa e stadi intitolati a Blatter. Goleade a volte oratoriali, con vittime designate Tuvalu e soprattutto le Samoa americane, ma il sogno di andarsi poi a giocare con la Nuova Zelanda quel mezzo posto che spetta all’Oceania. Nel senso che la vincente del futuro girone a quattro andrà poi ad uno spareggio con la quinta asiatica (che paradossalmente potrebbe essere la fuoruscita Australia) per decidere chi andrà in Sudafrica. Alla fase finale non andranno sicuramente la Repubblica Centrafricana e Sao Tomé e Prìncipe, che una settimana fa hanno annunciato l’intenzione di non partecipare nemmeno ai preliminari delle qualificazioni per la zona africana, quelli riservati a chi ha il ranking Fifa più basso. Fase in cui saranno impegnate solo sei squadre, in tre spareggi da giocarsi fra ottobre e novembre: Madagascar-Isole Comore, Sierra Leone-Guinea Bissau e Gibuti-Somalia (in questo caso partita unica).

Stefano Olivari
stefano@indiscreto.it

Share this article