Novecento

6 Luglio 2007 di Stefano Olivari

Il millesimo campionato vinto da Giovanni Trapattoni ha ispirato gli inevitabili editoriali sui ‘vincenti’ piuttosto che sui ‘vecchietti terribili’ (altro che i libri dei temi, tornatici alla memoria grazie a ‘Notte prima degli esami’) e fatto tirare fuori dal cassetto polverosi ritagli, sempre gli stessi, sui vincitori di campionati nazionali in più paesi del mondo. Ve li risparmiamo perché se siete qui significa che i giornali li avete già letti, ma era questo il pretesto che ci serviva per parlare di quello che fra questi allenatori giramondo ha colpito maggiormente la nostra fantasia: ovviamente Bela Guttmann. Come in quella di tutti i grandi mitteleuropei che hanno lasciato una traccia, nella sua vita si notano (o meglio, deviati da cattive antologie le vogliamo notare noi) un’inquietudine e una disperazione di fondo che rendono interessante un’esistenza che secondo canoni normali, nel senso peggiore del termine, sarebbe da archiviare come da vincente. Anzi, da supervincente, se vogliamo metterci a sparare un palmares che comprende campionati vinti in cinque paesi, e una quantità di club e nazionali guidati da far fatica a tenerne il conto. Robetta, se paragonata al fatto di avere gettato un seme decisivo nella costruzione di due squadre non trascurabili: l’Ungheria del 1954 ed il Brasile 1958. E pazienza se poi i frutti mondiali li hanno raccolti altri.
Chissà a cosa stava pensando il ventisettenne Guttmann quando il 17 aprile del 1926 arrivò al porto di New York insieme alla sua squadra, la leggendaria Hakoah di Vienna, il primo vero simbolo sportivo degli ebrei di tutti il mondo, prima dei vari Maccabi e Hapoel, o di Ajax e Tottenham, versioni light e ormai annacquate di un ideale (il cosiddetto mondialismo, ovviamente inviso ai provinciali) più che di una religione. Volendo fare quelli che collegano tutto, potremmo dire che stava pensando all’Europa che stava scivolando verso crisi economica, dittature e guerre, in un contesto che per un ebreo come lui non sarebbe stato rose e fiori. Ma non era Nostradamus, visto che Hitler sarebbe salito al potere solo nel 1933 (pur essendo già politicamente in circolazione da anni), e probabilmente stava solo pensando alla sua carriera di calciatore. Sì, perchè Bela Guttmann fu prima di tutto un grandissimo calciatore. Nato a Budapest, centromediano dell’MTK, dopo i campionati vinti nel 1920 e nel 1921 era entrato nel mirino della ricca e professionalizzata Austria. Ma non avrebbe mai abbandonato la sua città se non fosse stato per il clima di antisemitismo creato dall’ammiraglio Horthy (senza addentrarsi nella storia dell’Ungheria, di fatto Horthy detenne il potere tecnicamente come ‘reggente’ fra le due guerre mondiali): nel 1922 lo ingaggiò proprio l’Hakoah di Vienna, e nel 1925, dopo aver partecipato all’Olimpiade di Parigi 1924 con la maglia ovviamente dell’Ungheria, Guttmann vinse anche il titolo austriaco, venendo considerato da tutti gli osservatori il miglior prodotto del calcio danubiano dell’epoca. Diciamo danubiano solo per distinguerlo da quallo mazzolato del resto d’Europa, anche se tatticamente, prima dell’Arsenal di Chapman, nei vari paesi c’erano solo minime varianti al Metodo o alla Piramide. Niente di troppo oscuro: scrivendo con i termini di oggi si trattava di due difensori spazzatutto, tre mediani con quello centrale (il centromediano) vera anima della squadra, sia difensivamente che in impostazione, e cinque uomini offensivi: ali, interni, e una prima punta. Insomma, Guttmann era uno dei giocatori più famosi d’Europa, quando salì su quella nave che avrebbe cambiato la sua esistenza.
Anche in assenza di manifestazioni per club strutturate l’Hakoah aveva lasciato un segno umiliando ripetutamente anche le inavvicinabili squadre inglesi: in particolare avevano fatto il giro mediatico del mondo le vittorie sul West Ham e sul Wolverhampton. Gli ingaggi per le amichevoli erano ormai a livelli stellari: in quel tour americano del 1926 giocò il suo calcio ipertecnico contro realtà universitarie o semiprofessionistiche di buon livello di un movimento Usa tutt’altro che all’età della pietra, come avrebbe poi confermato il terzo posto nella Coppa del Mondo del 1930 in Uruguay. In dieci partite totali l’Hakoah si fece ammirare da circa 200mila spettatori americani, con un record di 46mila al Polo Grounds di New York, la casa dei Giants di baseball (da mezzo secolo la franchigia MLB è a San Francisco). Un risultato di pubblico che sarebbe stato battuto solo dalla Nasl, nel 1977, quindi più di mezzo secolo dopo…
Guttmann decise che l’America faceva per lui: non era il classico emigrante con la valigia di cartone, e la sua scelta in altri tempi sarebbe stata definita ‘scelta di vita’. Dopo qualche abboccamento con i Brooklyn Wanderers firmò quindi per i New York Giants dell’American Soccer League. Due stagioni dopo, parlando con altri compagni dell’Hakoah rimasti negli Usa (in particolare Rudolph Nickolsburger), si improvvisò imprenditore e formò prima la New York Hakoah e poi gli Hakoah All Stars, una specie di compagnia di giro capace di fare vedere ovunque il mitizzato calcio danubiano. In realtà, come abbiamo visto, lo stesso calcio degli altri ma giocato da elementi più tecnici. Questi Harlem del calcio (curiosamente gli Harlem Globetrotters che tutti conoscono si formarono nella stessa epoca, nel 1927) vinsero diversi tornei importanti, come lo Us Open del 1929, ma poi Guttmann preferì tornare a un calcio più organizzato, sempre a New York ma nel Soccer Club, in una neonata lega formata dalla fusione di Eastern Soccer League e ASL. Dopo qualche altro giro con i suoi amici All Star uno dei migliori calciatori ungheresi di tutti i tempi decise di ritirarsi, con molti rimpianti. Dentro di se sapeva di aver buttato via gli anni migliori della carriera in un calcio di buon livello ma fuori dalle rotte che contavano (e che contano). A tutto questo si aggiunsero varie vicissitudini personali, capitategli non per caso o per colpa del sistema cattivo: dal coinvolgimento nel traffico di alcolici (si era nella fase finale del proibizionismo) ai disastrosi investimenti a Wall Street. Insomma, Guttmann aveva trovato l’America ma l’aveva anche persa. Ritornò in Europa nel 1933, deciso a diventare allenatore. La sua mente si era aperta, ma bisognava comunque ricominciare da quasi zero.
La prima società a dargli una chance fu la sua vecchia Hakoah, poi Guttmann emigrò in Olanda, al Twente, per chiudere il giro in Ungheria, all’Ujpest Dosza, che portò alla vittoria nel campionato 1938-39 e in una Mitropa Cup che all’epoca era una mini Champions League (anche se l’edizione vinta da Guttmann ebbe un campo di partecipanti modesto). Europa centrale, 1939, ebreo: bisognava scappare. Suo fratello e tanti amici non furono veloci, per loro il campo di concentramento e la morte arrivarono quasi subito. Dopo una fuga da romanzo, corrompendo chiunque con i pochi soldi messi via, Guttmann riuscì ad arrivare per miracolo in Svizzera e lì rimase fino alla fine dell’orrore. Subito dopo rieccolo a Budapest, alla guida del Vasas, poi in Romania al Chinezul di Timisoara (anni dopo raccontò di essere stato pagato in generi alimentari), poi il grande ritorno all’Uijpest con un altro campionato vinto, fino alla grande offerta del Kispest (poi diventato Honved), che gli chiese di sostituire Ferenc Puskas. Sì, il padre del Ferenc Puskas che tutti conoscono. Guttmann fece crescere sportivamente e umanamente un gruppo incredibile, poi diventato l’asse portante della Grande Ungheria di Sebes: suo allievo prediletto il giovane Ferenc Puskas, ma l’amore non fu ricambiato. Puskas fece di tutto per preparare il terreno all’esonero di Guttmann ed al ritorno del padre in panchina e ovviamente ci riuscì, complice anche una certa aria politica. Sopravvissuto al regime di Horthy ed al nazismo, Guttmann si liberò anche del comunismo: nella nuova Ungheria nessuno lo minacciava apertamente di morte, ma in un regime totalitario occorre sempre trovare come capro espiatorio l’ebreo della situazione. Meglio se ebreo vero.
Nel 1949 iniziò quindi l’avventura italiana, che lo

vide alla guida di Padova, Triestina, Milan e Lanerossi Vicenza. Dalla Triestina portò con sè al Milan Cesare Maldini, uno dei calciatori che più gli prese il cuore, soprattutto per la sua versatilità, per la cifra di 58 milioni di lire. Nel 1954-55 lo scudetto sulla panchina rossonera, con Nordahl ovvio capocannoniere, ma l’amarezza della sostituzione a metà dell’opera con Ettore Puricelli, dopo una partenza lanciatissima e un miniperiodo negativo, dovuto anche alla squalifica di Schiaffino. Il tutto in mezzo ad una storia tragica (la morte di due persone in un incidente stradale causato dall’allenatore, con conseguente processo) e ad accuse di omosessualità che in un ambiente come quello del calcio anni Cinquanta (non che le cose siano cambiate di molto…) marchiavano a fuoco. A 58 anni una nuova svolta, guidando in una tournée brasiliana la squadra dei semi-fuorusciti (diciamo semi perché alcuni, come Bozsik, tornarono poi in patria) della Honved, che diede spettacolo asfaltando tutti. Lì si riallacciò il suo rapporto con Puskas, a cui dedicheremo una puntata a parte. Arrivò subito una nuova chiamata stimolante, proprio dal Brasile: il San Paolo. Guttmann ci rimase un anno solo, ma lasciando un segno indelebile nel calcio brasiliano e in quello di tutto il mondo, introducendo quel 4-2-4 che sarebbe stato fatto proprio dalla Selecao dominatrice dei Mondiali 1958 e 1962 (con il solito discorso di Zagalo che scalava, che per l’occasione vi risparmiamo) e che a ben vedere è stato molte volte riproposto anche in tempi moderni.
Un anno lì e di nuovo in Europa, prima al Porto e poi alla guida della nazionale portoghese. Nel 1959 il clamoroso passaggio al Benfica, che con Guttmann strappò al Real Madrid il trono continentale, vincendo la Coppa Campioni nel 1961 e nel 1962. Squadra di fenomeni, troppo facile ricordare Eusebio, Mario Coluna, Costa Pereira, Jose Aguas e Mario Simoes. La scoperta di Eusebio fu da romanzo, come tutta la vita di Guttmann: mentre era dal suo parrucchiere a Lisbona, sentì parlare di questo Eusebio da un altro cliente, un allenatore-mediatore brasiliano che aveva osservato questo fenomeno in Mozambico. Tempo una settimana ed Eusebio fu del Benfica: storia confermata di recente anche dallo stesso attaccante. Nonostante tutto quello che aveva fatto, solo dal Benfica in poi il già sessantenne Guttmann fu considerato dai contemporanei un maestro di calcio, piuttosto che un simpatico giramondo con la sufficienza con cui ai giorni nostri viene giudicato Bora Milutinovic.
Rinforza i tuoi punti di forza, piuttosto che lavorare sulle debolezze e rimanere a metà del guado: un concetto molto americano, che Guttmann rese digeribile in Europa, senza propagandare il falso mito del calciatore ‘completo’. Dopo la seconda Coppa Campioni (nella prima Eusebio ancora non c’era) litigò con il presidente del Benfica, per motivi di soldi e anche perchè non gli era andato giù il modo in cui si era persa l’Intercontinentale 1961, con il Penarol, dopo una trasferta disorganizzatissima. Andò ad allenare proprio il Penarol, poi fu chiamato dalla nazionale austriaca, poi tornò nel 1965 al Benfica, poi andò in Svizzera, al Servette, poi in Grecia al Panathinaikos, prima di un clamoroso ritorno in Portogallo, al Porto. Un allenatore non si giudica solo dalle vittorie, che comunque sono state tante, in dieci nazioni, ma da come ha plasmato il materiale umano a sua disposizione e dalla traccia che ha lasciato: Guttmann ha migliorato la somma dei valori individuali quasi di ogni gruppo, lasciando agli allenatori venuti dopo di lui un notevole patrimonio di idee e di cultura oltre che la strada aperta verso i trofei. Tanti club ma anche tante nazionali, prima di ritirarsi, nel 1974 per una vecchiaia serena nella Vienna che sentiva sua (era anche diventato cittadino austriaco) più di una Budapest nella quale era ormai sgraditissimo. Nel 1981 Bela Guttmann lasciò questa terra, dopo aver fatto molto e sapendo che avrebbe potuto fare di più. Novecento (nome completo Danny Boodman T.D. Lemon Novecento) si chiamava il protagonista della Leggenda del pianista sull’Oceano, emblema di un secolo da cui è stato difficile uscire ma che in mezzo a guerre e vari crimini contro l’umanità ha fatto senz’altro progredire questo pianeta. Il Novecento del calcio è stato Bela Guttmann.

Stefano Olivari
stefano@indiscreto.it

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