Calcio
Manchester City-Chelsea, più della Champions League
Roberto Gotta 28/05/2021
Manchester City-Chelsea è la prima finale di Champions League tra squadre nate nel Ventunesimo secolo. È anche la prima tra squadre senza tifosi. Fa ridere, ma questo è quello che emerge se si compie il grave errore di dare peso a quel che si legge sul web, specialmente tra due fasce d’età: i giovanissimi, che la storia (non) la imparano su Instagram, ed i matusa, spesso tifosi di squadre tradizionali (?), riconoscibili dal fatto che dicono ‘matusa’ invece del dilagante, conformista e soprattutto non-italiano ‘boomer’.
Scherzi a parte, il problema è serio: tantissimi appassionati ritengono di fatto che prima dell’arrivo dei soldi russi e arabi il Manchester City e il Chelsea non valessero nemmeno la carta intestata su cui era scritto il loro nome e fossero seguiti, allo stadio, da gruppuscoli di persone distanziate non già per irrazionali paure di contagi ma per naturale disinteresse verso la propria squadra, o magari finiti lì perché impossibilitati a trovare un biglietto per vedere il Manchester United o l’Arsenal. Nulla di più errato, ovviamente. E anche se l’apprezzamento di un club non deve necessariamente implicare la conoscenza di tutta la sua storia, è il caso di dare un piccolo, disperato contributo alla verità.
E la verità è che entrambi sono grandi club, espressione di notevoli città calcistiche – più ‘vera’ Manchester, meno contaminata da respiri internazionali che diluiscono la consistenza londinese – e caratterizzati fin dall’inizio da una storia pesante, anche se non parallela. Il City è stato forse il club più rilevante della sua zona, nei primi decenni, in alternanza semplice con lo United, un duello alla pari per strutture, prestigio, divisione del tifo locale, un ‘locale’ che tra l’altro coinvolgeva quartieri diversi da quelli attuali.
Il Chelsea ha invece avuto uno sviluppo differente, essendo nato solo nel 1905, ovvero un anno dopo il primo successo vero del City, la FA Cup: in occasione della sfilata celebrativa in città, effettuata due giorni dopo la finale, con la squadra arrivata direttamente da Liverpool dove aveva perso 1-0 contro l’Everton perdendo la possibilità della doppietta coppa-campionato, per le strade ci fu una folla che un cronista dell’epoca a spanne ritenne essere cinque volte superiore a quella che poco tempo prima aveva salutato il Principe di Galles, il futuro Re Giorgio V. Altro che piccolo club, già 117 anni fa.
Il Chelsea, si diceva: nato un po’ come il Liverpool, cioé per riempire uno stadio vuoto. A Liverpool per via della fuga dell’Everton da Anfield, a Londra perché Augustus (‘Gus’) Mears, imprenditore, proprio vedendo folle clamorose come quelle delle finali di FA Cup giocate al Crystal Palace aveva costruito un impianto sperando di farne la sede futura e di ospitare, nel resto dell’anno, un club. Lo offrì al finitimo Fulham, ma si prese un due di picche dal presidente Henry Norris: rispettoso della tradizione, affettivamente legato a Craven Cottage? Be’, magari non del tutto, visto che solo alcuni anni dopo Norris, preso a sua volta un bel ‘no’ dalla Football League alla proposta di fusione del Fulham con l’Arsenal, spostò quest’ultimo da sud del Tamigi all’attuale zona, provocando l’irritazione del Tottenham e del Leyton Orient, che vi erano nate. Mears quindi fondò il Chelsea perché aveva bisogno di una squadra per il proprio stadio, e lo fece solo dopo aver declinato, a fatica, una bella offerta di una compagnia ferroviaria che in quell’ovale voleva sistemare un deposito di carbone. Nei primi decenni della sua esistenza il Chelsea ebbe per dieci volte la maggior media spettatori di tutto il calcio inglese, e nelle altre occasioni scese al secondo o terzo posto, con rari cali ulteriori, a dimostrazione che già la storia antica smentisce la reputazione socialmediatica di club abbandonato a se stesso.
Che poi scelte societarie e gestione tecnica abbiano portato molti meno trofei del prevedibile e del possibile, sia al City sia al Chelsea, è altro discorso che non c’entra nulla con la ‘storia’ e con il rispetto loro dovuto. A fine Ottanta il Manchester United stava per essere venduto a un tizio, Michael Knighton, così poco amante della pubblicità da… essersi messo a fare palleggi, a Old Trafford, e poi calciare la palla in rete, prima di una partita. Esuberanza non vuol dire incompetenza, e Knighton – che non riuscì nell’acquisto per 10 milioni di sterline, pochine all’epoca, però entrò nel consiglio di amministrazione – avrebbe magari portato lo United a vertici ancora maggiori. Perché i successi dal 1990 in poi, culminati nel dominio del calcio inglese per quasi un ventennio, non nacquero dalla potenza economica originaria del club ma dalla fiducia riposta in Alex Ferguson.
Vittoria portò vittoria, portò altri soldi, altri giocatori, altro prestigio, mentre nell’altra metà di Manchester le scelte venivano sbagliate e il City perdeva spesso l’appiglio con i vertici se non addirittura con la massima serie, First Division o Premier League che fosse. Al punto che ai tifosi – tanti, sempre, altro che ‘di plastica’ – era diventato quasi naturale ironizzare su se stessi e sulle proprie sventure: il libro Manchester United ruined my life, di Colin Schindler, uscito nel 1998, è una sorta di autocelebrazione addolorata e al tempo stesso sarcastica di cosa volesse dire in quegli anni Novanta tifare per il City, una confessione generosa che niente ha a che fare con l’opportunismo editoriale che in Italia, ad esempio, si è fatto in passato con le sorti precarie dell’Inter. Al di là dei piagnistei ante litteram, qualcuno ha mai davvero pensato che tra il 1989 e il 2006 l’Inter non fosse un grande club solo perché non vinceva il campionato? Aveva, semplicemente, scelto male, ma neanche malissimo, considerando le tre Coppe Uefa vinte nel frattempo. Stessa cosa, adattata al mondo diverso, per il City, forse anche per il Chelsea: aver vinto o non vinto negli ultimi 20 o 30 anni, quelli della visibilità mediatica aumentata, dei social media, dei contributi online, non deve cancellare quanto accaduto prima, in un senso o nell’altro, dunque.
Fidatevi se ve lo scrive uno che – fosse possibile – tornerebbe volentieri al calcio inglese con proprietari, allenatori e giocatori solo britannici, irlandesi o al massimo scandinavi (seguono il football dagli anni Sessanta, in televisione, e ne comprendono l’essenza): l’arrivo di capitali russi o arabi o asiatici in molti casi è servito solo a risollevare i club al livello di altri, a rimetterli alla pari, magari con esagerazioni perché non è ovviamente normale veder spese centinaia di milioni di euro per costruire e rinnovare costantemente organici o per – caso Chelsea – cambiare di continuo allenatori, e ora fanno tre su tre subentrati (Avram Grant 2008, Roberto Di Matteo 2012, Thomas Tuchel 2021) a condurre la squadra in finale di Champions League.
Nel caso arrivasse poi la cessione del Newcastle United, e gli acquirenti fossero gli esponenti sauditi che attendono da quasi un anno, ai Magpies potrebbero arrivare fondi immensi in grado di rilanciare la squadra e porla costantemente tra le prime sei: e non sarebbe né uno scandalo né un’aberrazione, sarebbe semplicemente un meccanismo di parificazione del club agli altri, e una volta raggiunti i vertici e la presunta parità sarebbero poi le scelte a fare la differenza. Altro sarebbe se un multimilionario, magari in omaggio al tifo del padre o della madre, acquistasse il – per dire – Peterborough United con l’intento di portarlo in Premier League e magari in una coppa europea. Lì si andrebbe ben al di là del potenziale di pubblico e del cosiddetto bacino di utenza: quella sì sarebbe una causa contro natura, una stortura, non che City o Chelsea o Newcastle United vengano finanziate in maniera travolgente.
E con questo, naturalmente, non si vuole dire che debbano vincere solo i grandi club. Anzi, le soddisfazioni maggiori le proviamo quando sono i piccoli a crescere, a programmare bene senza fondo cassa illimitato e a batterle, ed è anche per questo motivo che ci sconforta il declino della Coppa d’Inghilterra, dove le sorprese sono sempre meno possibili, a formazioni complete. Semplicemente, vogliamo dire che all’interno del calcio inglese o della stessa Premier League si è di fatto formata da anni una Superlega, con netta divisione a livello economico, per cui ogni aiuto esterno, per quanto da molletta sul naso, a club come Newcastle United (o West Ham United o Everton, a cui peraltro i mezzi non mancano) non è un affronto alla storia ma anzi un involontario omaggio ad essa, perché li aiuterebbe – o li ha aiutati, come nel caso di Chelsea e City – a tornare alla pari con chi nel frattempo ce l’aveva fatta con mezzi propri.
Poi, è chiaro, se hai ogni anno 100 milioni da spendere puoi permetterti errori di valutazione da cui chi ne ha 30 può non risollevarsi, ma anche lì bisogna saperci fare: arrivato in Premier League, due estati fa, il direttore sportivo del Norwich City Stuart Webber disse più o meno ‘non faremo follie per evitare la retrocessione, abbiamo una gestione che ci permette di restare a galla senza mettere in pericolo l’esistenza del club’ e infatti i Canaries caddero subito in Championship, ma vendendo bene alcuni giocatori e mantenendo la fiducia nell’allenatore Daniel Farke ora sono stati nuovamente promossi senza precipitare ulteriormente, come accaduto ad esempio al Sunderland. E il Norwich City si avvicina molto al nostro ideale di proprietà, con la coppia moglie-marito Delia Smith – la prima cuoca televisiva celebre del Regno Unito, responsabile del cambiamento di abitudini gastronomiche di milioni di persone – e Michael Wynn-Jones a gestire senza eccessi e senza troppi protagonismi. Venderebbero a un finanziere americano o a un fondo arabo, se facesse il bene del club? Probabilmente sì, ma senza scelte tecniche adeguata la patata bollente dell’avanti-indietro tra prima e seconda serie resterebbe.
Già, c’è la partita. Sul web potete trovare di tutto, sul piano dell’analisi tattica, qui di seguito solo alcuni punti da seguire, alcune situazioni da tenere sotto controllo.
1 – L’onnipotenza attuale di Phil Foden: gioca in quasi tutti i ruoli dal centrocampo in su, e tra nazionale e City ha avuto mano (e piede) in 30 gol, quest’anno. Capace anche, nonostante il fisico non robusto, di farsi 30 metri palla al piede con un difensore attaccato, a Brighton, e segnare.
2 – I difensori centrali del City nella fase di creazione del gioco. Come fenomenalmente evidenziato dal sito The Athletic il mese scorso, in Manchester City-Leeds United Marcelo Bielsa, in 10 contro 11, permise a John Stones di farsi più metri di tutti palla al piede, arrivando a volte anche indisturbato sulla trequarti, chiudendogli però tutte le possibilità di passaggio. Rischioso: Thomas Tuchel seguirà una strada simile?
3 – Il Chelsea gioca quasi sempre senza centravanti puro, come del resto il City, e non per nulla Tammy Abraham è tra le possibili cessioni. Il trio di attaccanti mobili quanto terrà impegnati i difensori del City?
Ad maiora.