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Magic City, una Miami già vista

Indiscreto 27/08/2015

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L’ambientazione spesso vince su tutto il resto, nei libri e a maggior ragione nelle serie televisive: per questo Magic City, la cui seconda stagione è in programmazione su Sky Atlantic (appena vista la terza puntata), ha il potere di ipnotizzare ben al di là della trama e dei personaggi. La prima è semplice: nella Miami Beach di inizio anni Sessanta Ike Evans è il proprietario dell’albergo più bello della città, il Miramar Playa, da lui costruito facendo milioni di debiti, dovendo districarsi fra mille problemi uno più insidioso dell’altro.

Intanto il socio occulto della sua azienda non è Mister Bee ma un mafioso locale, Ben Diamond, soprannominato il Macellaio, ebreo come Ike, la cui moglie (figura ellroyan-chandleriana se ce n’é una) è amante di uno dei figli di Ike, l’ondivago Stevie. Ike dopo essere rimasto vedovo si è sposato con una ex ballerina conosciuta nella Cuba di Batista, Vera. Il secondo grande problema di Ike, self made man del genere educato, è il procuratore Jack Klein che lo vuole in ogni modo incastrare (Ike è relativamente pulito, pur avendo ammazzato un tipo che se lo meritava e causato indirettamente altre morti) per lanciare la sua ascesa politica, che usa con cinismo il secondo figlio maschio di Ike, Danny, studente di giurisprudenza che vuole fare pratica nel suo studio. Per Ike, uno che regge benissimo le pressioni, ci sono anche vari problemi familiari, fra cui la lotta della sua ex cognata per insinuarsi nel rapporto fra lui e Vera.

Ma dicevamo dell’ambientazione, ipnotica sia per la località (almeno qui c’è un po’ di ritmo, mentre in Miami Vice non accadeva assolutamente niente per intere puntate… Dexter, Nip/Tuck e CSI puntavano invece su altro, pur essendo ambientati negli stessi posti) sia per il periodo storico: con Castro fresco di presa del potere e una Miami piena della voglia di rivincita degli esuli cubani, il tutto mentre Kennedy sta per completare la sua ascesa verso la presidenza battendo Nixon. Se è vero che l’adolescenza dell’America è finita nel 1963 a Dallas allora qui siamo verso la fine dell’adolescenza e quindi nell’età che a posteriori sembra più bella, dove tutto sembra possibile. L’America, poi, dice il manuale dell’inviato progressista, è una terra di forti contrasti e quindi il giochino è anche mettere in contrapposizione la solarità, non soltanto a un primo livello, della città con la trasgressione della notte, i rituali religiosi con i crimini più efferati, il senso dell’onore e il tradimento nella stessa persona a distanza di cinque minuti.

Detto questo, la storia si trascina un po’ ma viene nobilitata dalla durezza dei personaggi (Diamond che inchioda sulla scrivania la mano del domestico non è proprio da RaiUno) e da un  contesto storico che per pura colonizzazione culturale (meritata, non è che Sky boicotti per partito preso le serie girate nello Yemen) ci è più familiare di quello dell’Abruzzo o della Val Trompia dell’epoca. Insomma, quel qualcosa di già sentito che rappresenta la fortuna di tanta musica presunta originale è anche il motivo principale per cui guardiamo Magic City. Parliamo al presente perché è difficile che ci sia una terza serie, anche se Mitch Glazer (ex cabana boy, proprio come Ike) ha in mente un film con gli stessi protagonisti.

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