L’ultimo Tiki Taka di Piero Chiambretti

Intervista di fine anno con uno degli ultimi top player della TV italiana. Lo spunto era l'autobiografia, ma gli scoop non sono mancati...

31 Dicembre 2021 di Simone Sacco

È sera e ci troviamo a Poirino, in un bel teatro di provincia alle porte di Torino. Qui, anni fa, era venuta Felicita, la mamma di Piero Chiambretti, a presentare un suo libro di poesie. Oggi ci torna il figlio, dopo i tragici fatti del Covid che l’hanno visto coinvolto, per parlare di Chiambretti. Autobiografia autorizzata dalla figlia Margherita. Libro che noi di Indiscreto abbiamo divorato a cavallo di Natale e che ci è sembrato l’incrocio ideale tra un testo pedagogico, un memoir venato di humor nero ed un ottimo manuale televisivo. Un volume da amare, non fosse altro che in copertina non sfoggia la faccia del suo autore, ma della figlia Margherita. Sarcastici, d’altronde, si nasce. Il tempo – come al solito – è tiranno, ma l’ex Pierino nazionale, innovatore di natura ed oggi sempre più ultimo dei grandi autori televisivi in via d’estinzione, ci sembra preso bene. Ironico il giusto, però mai clown. Più che altro desideroso di parlare ed esporsi. Non ci dilunghiamo in ulteriori presentazioni retoriche ed addentiamo la polpa della conversazione. Memori di quei 43 minuti in cui Chiambretti tenne inchiodato (e a braccetto) l’allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga per una intervista televisiva che fece la storia d’Italia. A noi ne occorreranno giusto un po’ di meno.

Chiambretti – Autobiografia autorizzata dalla figlia Margherita mi ha ricordato il tuo modo di fare televisione. Nel senso che parte da un canovaccio solido nel ricordare date, nomi, indirizzi e cifre, ma poco alla volta prende vita diventando uno show inarrestabile. Che ne dici?

Innanzitutto grazie per la bella recensione che mi hai appena fatto: ne sono onorato. Poi – e questo prendilo pure per un enorme paradosso – penso d’aver scritto questa autobiografia perché non è che nella vita di tutti i giorni ami così tanto parlare di me…

E allora perché l’hai mandata in stampa?

Per una serie di circostanze, non tutte positive. Una riguarda la memoria: la mia testa funziona come un computer e, dal momento che è ancora molto affidabile, ho deciso di mettere su carta 40 anni e passa della mia vita. Basandomi esclusivamente sui miei ricordi e senza mai ricorrere a facili scappatoie tipo Wikipedia. E poi è intervenuta pure un po’ di sana pazzia, certo. Tipo la pazza Inter.

Cosa c’entra la follia?

Be’, non è un mistero che i libri in Italia non vendano un tubo. E anche quei pochi che ce la fanno godono di un pubblico ristretto e particolare. Acquirenti con le proprie esigenze e convinzioni. Ti faccio un esempio: in libreria la mia autobiografia lo trovi nella sezione dei “Personaggi televisivi” che però include anche le guide di cucina di Antonella Clerici e Benedetta Parodi. Ecco, senza nulla togliere alla bravura di queste due signore, credo che così si vada a perdere un po’ di allure, no? Molto meglio che ‘Chiambretti’ divida lo spazio sullo scaffale con la recente autobiografia di Will Smith. Anche solo per una mera questione di attitudine.

Ho letto che a casa tua, a Torino, possiedi una statua di Superman ad altezza naturale…

Confermo.

Dunque è quello il segreto di Piero Chiambretti? Essere un po’ Clark Kent e un po’ Superman? Utilizzare un format come l’ennesimo memoir scritto da un personaggio famoso e farlo diventare, pagina dopo pagina, un super libro?

Be’, più che segreto, credo dipenda dal fatto d’aver sempre letto biografie di esseri umani straordinari. Gente tipo Picasso, Kubrick o Beethoven. Quando ho cominciato a scrivere queste pagine avevo in testa due nomi da far tremare i polsi: i libri che Paolo Villaggio firmò per la Rizzoli negli anni Settanta narrando del suo ragionier Ugo Fantozzi più tutti quelli redatti da Woody Allen in vita sua.

Esempi mica da poco.

Già, stiamo parlando di due giganti al cospetto di un pigmeo, vale a dire me. Eppure mi è piaciuto parlare del Novecento perché anche io, come Villaggio ed Allen, ho respirato più arie storiche nel corso della mia esistenza: la nascita di radio e TV private, il benessere degli anni Ottanta, il crollo del Muro di Berlino, Tangentopoli, la fine drammatica della Prima Repubblica, l’arrivo di Berlusconi sulla scena politica, eccetera. Poi mi sono ritrovato, come tutti quelli della mia età, intrappolato nel vivere “liquido” odierno. In questa contemporaneità che genera il mal di testa. Tutti questi cambiamenti sono stati assorbiti nelle pagine di ‘Chiambretti’, tant’è che alla fine, più che di un testo canonico, parlerei quasi di un “non libro”.

Steve Jobs riusciva a portare milioni di acquirenti dalla sua parte convincendoli che quello che piaceva a lui – fosse anche un telefonino da mille dollari – alla fine sarebbe stato utile anche a loro. Questo non è stato pure un mantra di Piero Chiambretti quando si è trattato di fare televisione sperimentale?

Ma questo è l’obbiettivo di qualsiasi artista, no? Io credo di aver fatto le cose in maniera più calda rispetto ad un genio tecnologico, un po’ freddino, come Jobs. Eppure sempre di “mercato dei sentimenti” si tratta. L’importante è attirare verso di te l’interesse altrui. È sempre quello il gol più bello.

Una volta hai detto: «Quando faccio una intervista televisiva, non inseguo la verità che è sempre ambigua, ma lo show». Confermi?

Eccome! E ti aggiungo pure un altro comandamento non scritto del “comunicatore mediatico”: mai accontentarsi. Se uno è appagato di sé, stai pur certo che non si metterà più in gioco. Farà sempre quel programma. Monetizzerà quel consenso fino ad annoiarsi. È quello il più grande nemico dell’arte – il sedersi sugli allori -, non l’audience. Nel libro, ovviamente, si parla anche di questo.

Dal 2008 – anno della grande crisi economica globale – sono spariti i soldi degli sponsor e, a livello di mainstream televisivo, la recessione non è praticamente mai rientrata. Solo che oggi c’è una voglia pazzesca di fare comunicazione dal basso: youtuber, giornalisti per hobby, influencer, eccetera. L’Italia è diventata una nazione di gente che parla, intervista e commenta senza freni. La tua opinione?

Bella domanda. Ok, il momento non è per niente facile, ma fin qui direi che scopriamo l’acqua calda. Io da tempo ho cominciato ad adoperare una sorta di selezione darwiniana: gli Ottanta e i Novanta sono finiti da un pezzo, gli anni delle vacche grasse non ci sono più, quindi bisogna lavorare con meno soldi. Ingegnandosi però di trovare sempre nuove idee vincenti.

Come Rocky che, rifiutandosi di andare al tappeto, si rialza sempre?

Guarda, proprio oggi (l’intervista si è svolta pochi giorni prima dello scorso Natale. Ndr) ho ricevuto da Mediaset la prevedibile notizia che ‘Tiki Taka – La Repubblica del Pallone’ subirà nel 2022 dei tagli sul budget di partenza. Si parla del 20-30% in meno rispetto al 2021. Che però, di suo, partiva già da un altro alleggerimento del 30%…

Quasi un 60% complessivo in meno…

Il fatto è che il televisore – quello che affettuosamente continuiamo a chiamare “la scatoletta del focolare” – nel frattempo è diventato un mostro in 4K che a casa ti occupa come minimo mezza parete… (sospira). E un oggetto simile lo devi alimentare con della qualità, a partire da certe telecamere HD ultra-professionali che costano un occhio della testa. Quindi la soluzione è presto detta: o spostiamo tutta la tv tradizionale dentro gli smartphone oppure proseguiamo su questa strada rischiosa dei tagli a ripetizione. Provando a realizzare – con quel poco che si ha – un prodotto migliore di quello che realmente è. Anche se a forza di tirare la corda…

Pensi che ‘Tika Taka – La Repubblica del Pallone’ sia diventata la terza via della narrazione calcistica italiana? Né bar-sport dove si tifa (e si grida) per la propria squadra del cuore né programma intellettuale dove uno storyteller ti parla per due ore di Pelé, Cruijff o Gigi Meroni. Magari immerso nell’eleganza di un teatro…

L’intento per ‘Tiki Taka’, in effetti, è sempre stato quello: unire leggerezza ed eleganza. Un po’ come faceva il Raimondo Vianello di ‘Pressing’ che però viveva in un’altra epoca. E comunque i grandi cambiamenti televisivi non avvengono mai in cinque minuti. Soprattutto se subentri in un programma non tuo (la trasmissione di Italia 1 è stata condotta da Pierluigi Pardo fino all’estate 2020, ndr)  e, come concorrenza diretta, hai altri 900 programmi (nazionali, satellitari, regionali) che parlano tutti di calcio. Tiki Taka aveva bisogno di almeno tre anni per farsi accettare dal grande pubblico: prima il tentativo, poi man mano la conferma e l’evoluzione. Non è andata così. Io, a questo punto, mi fermerò dopo appena due stagioni.

Grazie per lo scoop.

Di niente. Puoi tranquillamente scriverlo fin d’ora.

Ti faccio una provocazione. Secondo te il vero calcio, oggi, si vive meglio nella curva dell’Alessandria o nello skybox del Real Madrid?

Dipende. Credo, molto realisticamente, che se sei tifoso del Real Madrid non andrai mai e poi mai nella curva dell’Alessandria. Tutto qui.

Di Maradona una volta hai detto: «L’ho conosciuto di persona: era un giocherellone, forse pure troppo»…

Si sa che gli eccessi con Diego di mezzo non mancavano mai, soprattutto quando entravano in campo la sua simpatia e disponibilità. Una volta, a fine anni Novanta, venne ospite in una mia pizzeria torinese. E passare un po’ di tempo con lui è stata un’esperienza meravigliosa, anche se ad un certo punto della serata ho preferito andarmene a dormire! Il Pibe, in appena trenta secondi, azionava un radar mentale in grado di farti entrare nel suo mondo oppure di respingerti senza possibilità di appello. Io sono riuscito a varcare quella soglia, fortunatamente.

Con Urbano Cairo, invece, la soglia è stata superata fin dal 1984. La vostra amicizia, d’altronde, affonda nel cuore degli anni Ottanta in seguito ad un provino involontario che, come racconti nel libro, tenesti per Rete 4…

Con Urbano, più che grandi amici, direi che ci conosciamo da tantissimi anni. Cairo mi piace perché ha una trasversalità pazzesca abbinata ad un carattere che oserei definire complesso. Passa da un impegno all’altro – sia che debba muoversi nell’ambito de La7, di RCS o da presidente del Torino – ed è sempre credibile in tutto ciò che fa. D’altronde stiamo parlando di un uomo che è cresciuto nel mondo di Berlusconi, ha saputo muoversi all’americana, pochi fronzoli in cambio di grandi risultati, e non ha mai smesso di credere in sé stesso.

Però stranamente non avete mai lavorato assieme.

No, quello no. Nel 2019, quando stava scadendo il mio contratto con Mediaset, ci siamo andati vicino; ma alla fine sono stato io a tirarmi indietro.

Racconta…

In quell’occasione Cairo mi stava offrendo un bel contratto per La7 (dove Piero era già stato ai tempi gloriosi di ‘Markette’, ndr), ma era il programma proposto che non mi convinceva granché: una specie di trasmissione sulla falsariga de ‘La Repubblica delle Donne’ che però io conducevo già su Rete 4. Gli dissi di no per una ragione di correttezza – non vado dal vicino portando in dote quello che faccio per altri – e rilanciai con un’idea delle mie.

Quale idea?

Realizzare un format inedito in cui avrei riunito in un solo studio (grazie a dei collegamenti video, radio o web) tutto il suo impero editoriale. Immaginati questa baraonda di direttori e giornalisti che potevano andare da For Men Magazine fino a Il Corriere della Sera passando per La Gazzetta dello Sport, i libri di cucina e il gossip targato Di Più. In quel caso, però, fu lui che declinò.

Da tifoso del Toro è stata la sedia di Amsterdam (che nel 2022 compirà trent’anni), e la relativa sconfitta contro l’Ajax nella finale di Coppa UEFA ‘91-’92, la tua ferita sportiva più grande?

No, perché all’epoca quella squadra – allenata del compianto Emiliano Mondonico – era abituata a competere a simili livelli. Fu maggiore l’orgoglio d’essere arrivati ad Amsterdam, dopo aver fatto fuori il Real Madrid in semifinale, che l’arrabbiatura per quel mezzo furto verificatosi sul campo.

Quindi il vero grande dolore granata qual è stato?

Forse la terribile serie B del 2004-2005 con l’incubo di sparire a fine campionato per via dei troppi debiti. Poi fortunatamente subentrò lo stesso Cairo ed oggi siamo stabilmente in serie A. Ecco perché non capisco tutto questo disprezzo della Maratona nei suoi confronti, soprattutto quando gli si imputa di non voler vendere la squadra. Scusate, ma di solito uno non vende solo quando c’è qualcun altro intenzionato a comprare? E questo non mi sembra sia il caso del Toro attuale. E poi non è neanche vero che il nostro presidente non investe. Al contrario, in questi ultimi anni, Cairo ha speso pure troppo. E male.

Ultima domanda: oggi lo intervisteresti ancora il Mourinho giallorosso oppure ti tieni ben stretta quella chiacchierata epocale che realizzasti nel 2009 a ‘Chiambretti Night’, durante il suo primo anno all’Inter?

Guarda, Mou lo intervisterei anche domani per capire dov’è finito quell’altro Josè. Per appurare se questo Special One capitolino è meglio di quello che venne a trovarmi nel 2009 o se è interscambiabile su di un’altra panchina. Voglio dire: al posto di Simone Inzaghi avremmo sempre il Mourinho del Triplete? O quello più soft della Roma?

Ho capito: faresti anche in questo caso del buon giornalismo.

A poterlo fare! Peccato che oggi ci sia troppo politically correct in qualsiasi ambito della vita. Certe domande di allora non puoi neanche più pensarle, figurati porle…

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