Basket

Lo status di Jeremy Lin

Stefano Olivari 20/02/2012

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di Stefano Olivari
Che differenza c’è fra la storia di Jeremy Lin e una qualsiasi ‘favola Chievo’ dello sport europeo? Ci pensavamo guardando su SportItalia l’ultima puntata della Linsanity, nella partita fra Knicks e i Mavs campioni (sembra passato un millennio) giocata al Garden. Buona prova della squadra di Carlisle, il primo allenatore ad avere preso sul serio l’ex giocatore di Harvard: mandato quasi sempre a sinistra, cioè sulla mano meno forte, marcato a volte da un’ala invece che da una guardia per togliergli la visuale del canestro, raddoppiato spesso e soprattutto rispettato sul pick and roll centrale senza ‘passare dietro’ in maniera sistematica. Risultato: vittoria dei Knicks ancora senza Anthony e altra prestazione clamorosa dell’idolo dell’America di febbraio 2012, con 28 punti e 14 assist.
Una prestazione resa ancora più importante dal rispetto tecnico, evidenziato dalle 7 palle perse e da una creazione di gioco più difficoltosa rispetto alle prime puntate della saga. Che forse si ridimensionerà con il ritorno di Melo e lo scongelamento di Baron Davis, ieri incombente in panchina: dalla squadra semi-dantoniana delle ultime partite al carnevale dei ‘veneziani’ il passo sarà purtroppo breve, pur con la certezza che Lin avrà davanti una carriera NBA. Ma torniamo alla domanda iniziale: cosa differenzia Lin dai tanti outsider che anche fuori dagli Usa hanno avuto il loro periodo di gloria? Fondamentalmente una cosa: Lin non è visto dai media americani e quindi dagli americani stessi come una simpatica anomalia, destinata a passare di moda non appena i ‘grandi’ torneranno a giocare. Lin è l’essenza stessa dell’America, dove l’allenatore ha dato un’opportunità (per disperazione, essendo a due ore dall’esonero) a un ragazzo che lui per primo aveva giudicato inadeguato. Quello che vogliamo dire, in maniera farraginosa, è che alla fine di questo periodo di gloria Lin cambierà comunque status sportivo, mentre le Cenerentole di ambienti più statici continueranno a lavare i pavimenti alle sorellastre. Fra l’americanismo da sudditi frustrati e lo snobismo eurocentrico c’è la realtà: è difficile che uno di noi piccolo borghesi italiani finisca a vivere in una roulotte (ma non è detto), al contrario dei nostri omologhi statunitensi, è quasi impossibile che uno di noi emerga in un ambiente lavorativo diverso da quello dei propri genitori.


Twitter @StefanoOlivari

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