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La storia non siamo noi

Stefano Olivari 30/08/2012

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Fra le tante cose positive degli anni Ottanta c’è la nascita della letteratura cyberpunk. Definizione che si fa ricordare, ma tutto sommato abbastanza vaga: volendo semplificare, prendiamo lo schema della vecchia fantascienza, aggiungiamo information technology, tendenze culturali di massa e di nicchia, sociologia, politica, stili di vita marginali o estremi. Shakeriamo e serviamo con una patina di complottismo aleggiante su tutto, perché senza un grande vecchio non c’è gusto. Il genere ci piace tuttora, ma il suo esponente più famoso, anche perché ne è il padre, è probabilmente giunto al capolinea. Parliamo ovviamente di William Gibson, che con Zero History ha completato una sorta di trilogia: l’Accademia dei sogni (Pattern Recognition il titolo originale) e il meraviglioso Guerreros (Spook Country) le opere precedenti. C’è un certo ricambio di personaggi, la costante è il genio del marketing Hubertus Bigend, ma rimane l’impostazione ideologica di fondo: chi è in grado di manovrare o almeno di anticipare i gusti e le paure delle masse ha in mano le masse stesse. In Zero History Bigend incarica due personaggi già incontrati, l’ex stella della musica pop Hollis Henry e il traduttore Milgrim, tossicodipendente nelle sue mani, di indagare sul misterioso stilista che disegna i capi Gabriel Hounds. Come argomenti (l’ossessione per i marchi nella cultura contemporanea, per dirne uno) un libro più affine al primo della trilogia della Blue Ant (dal nome dell’agenzia di Bigend) che al secondo, strepitosa riflessione sulle opportunità per le diverse classi sociali, oltre che sul controllo e le sue degenerazioni dopo l’attentato alle Torri Gemelle, in Zero History ci sono molto mestiere ed alcune parti (soprattutto quelle descrittive, con una cura per i dettagli da romanzo ottocentesco) al limite della parodia, ma si sente comunque sempre la forza del pensiero di Gibson e la sua amara evoluzione: la controcultura non può in ultima analisi esistere, perché diventa inevitabilmente cultura non appena viene ‘rivelata’. Non parliamo poi di quando viene commercializzata, con la sua carica pseudoeversiva che si annacqua nel senso comune. In definitiva, un libro dimenticabile e dalla lettura faticosa (parliamo di noi che leggiamo per piacere e non per il gusto della stroncatura che ha magari il critico istituzionale), che comunque toglie poco alla grandezza di Gibson. Per il quale la definizione di padre di un genere non è usata a sproposito, visto che il termine ‘cyberspazio’ è di sua invenzione e che dell’onnipresenza dell’information technology nelle nostre vite ha scritto dieci anni prima della diffusione di Internet in tutto il mondo.

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