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La spinta di LeBron James

Stefano Olivari 23/01/2014

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Piccole note dopo avere seguito dal vivo la partita dei Miami Heat con i Boston Celtics, in attesa di vedere quella con i Lakers e poi di fare ritorno alla dura realtà. I reportage di viaggio di Moravia erano un’altra cosa, lo sappiamo, ma Moravia è morto e bisogna accontentarsi.

È la quarta volta che mettiamo piede all’American Airlines Arena, non il palazzo più moderno della NBA (è stato inaugurato nel 1999), ma di sicuro uno dei più comodi per il turista (non siamo onestamente viaggiatori, secondo lo schema ben enunciato nel ‘Tè nel deserto’). Si trova nel centro della città, non è lontano da South Beach (da questo dipende il discreto numero di turisti), è sul mare e non in un contesto post guerra-atomica. Nessun tagliando nominale, con buona pace di Maroni, ma triplo livello di controlli (2 anni fa erano 2): uno superficiale prima di accedere alla scalinata di ingresso, uno incentrato sulle borse e un altro sul corpo con detector da perquisizione multisex (cioè una donna può essere perquisita anche da un uomo, al contrario di quanto avviene in gran parte d’Europa).

Celtics e soprattutto Lakers sono le due squadre NBA con il maggior numero di tifosi da trasferta. Non che ci sia il ‘Celtics club Larry Bird di Key West’, ma di sicuro esistono tanti singoli sparsi per gli Stati Uniti che hanno il mito di queste due maglie. E noi, che per il momento non stiamo rileggendo Proust, non facciamo eccezione… Molto verde qua e là, con esultanze di insospettabili per un canestro del softissimo Bass dalla sua mattonella o una schiacciata di Humphries, tipo napoletani a San Siro quando segnavano Caffarelli o Bruscolotti.

Prepartita con speciale martellante su Chris Andersen, che ha portato il concetto di ‘white trash’ a vette sublimi, ma che fra un tatuaggio e l’altro (sorvolando sulle canne) è più pensante della maggior parte dei suoi colleghi. Attivista della PETA, l’associazione che si batte per un trattamento etico degli animali (e non solo per evitargli torture fisiche), Andersen ha trascinato il finto simpatico presentatore degli Heat (una specie di Magic Johnson, ma ancora più caricato) in una ambientazione tipo Everglades, per mostrargli quanto possa esse divertente colpire sagome di gomma invece che esseri viventi. Il bello è che Birdman ha ‘ucciso’ le sagome non banalmente  con il fucile, ma con le frecce. Scagliate con un arco da competizione, a distanza quasi olimpica e con precisione incredibile.

Martellanti anche gli spottoni degli Obama sulla corretta alimentazione, sfruttando la visita degli Heat campioni alla Casa Bianca. La tonica Michelle schiaccia in un canestrino retto da LeBron, poi tutti insieme a mangiare con l’ingrigito Obama una improbabile mela. Con il basket il presidente gioca in casa, ma il tutto è stato accolto dal pubblico con una indifferenza che i Franzen di questo mondo definirebbero repubblicana (il grande scrittore in realtà vede così il pubblico del football).

Rimandiamo a pezzi più meditati e soprattutto non scritti in un Papa John’s la discussione sui giocatori che, alla Mara Maionchi, ci ‘arrivano’. Di questa categoria fa sicuramente parte Rajon Rondo, rientrato settimana scorsa dopo il grave infortunio e non ancora iper-cinetico come un tempo. Non è il regista dei sogni di Brad Stevens e si vede, ma la fusione quasi mistica con il gioco è sempre quella di prima. Alla Aldo Ossola dà ritmo e situazioni facili a compagni che nei ‘suoi’ Celtics sarebbero stati solo gregari, vede pallacanestro ma la mano è quadrata come non mai ed anche la fiducia nel tiro almeno dalla media è vicina allo zero. Facciamo fatica a vederlo, anche da guarito, come punto fermo di Celtics ‘normali’ invece che costruiti su giocatori esperti e bisognosi della sua lucida follia.

Non è possibile scrivere qualcosa di nuovo sul controllo totale che LeBron James ha di partita, compagni, avversari, ambiente. Ancora più evidente in assenza di Wade, al terzo stop consecutivo causa ginocchio: quest’anno ha saltato quasi un terzo delle partite, LBJ comincia a preoccuparsi e nel dopopartita lo ha anche detto. Poi il tiro decisivo, quando i Celtics si erano fatti sotto nel finale, lo ha messo Allen dopo una schiacciata sbagliata dal Prescelto e quindi il probabile GOAT per i suoi numerosi hater rimane un perdente di successo. Fa comunque sempre impressione, anche in partite in cui deve timbrare il cartellino, per tutto quello che si vede negli highlights è anche per la creatività applicata alla difesa: raddoppia, gioca sulle linee di passaggio, battezza, aiuta, a seconda di come gli gira e degli errori dei compagni. Uno così non c’è mai stato.

Beasley e Oden, le grandi scommesse di stagione, visti dal vivo sono imbarazzanti per motivi diversi. Beasley sembra disinteressato alla partita, sia quando è in panchina che quando è in campo. Ad un certo punto, sul finale di secondo quarto, Spoelstra lo butta dentro per marcare Olynik ma lui gli sta a cinque metri: incazzatura istantanea di LeBron, che gli dà uno spintone e lo butta verso Olynik. Pochi secondi dopo Beasley segna da metà campo come se fosse un tiro libero. Ormai specialista offensivo, senza fuoco dentro, ha comunque una mano che fa male ed in generale ha più senso di Rashard Lewis. Oden è incitato dai tifosi degli Heat in maniera affettuosa ma quasi offensiva, come se fosse un handicappato. Boato da gol al suo canestro, ma il suo molle trascinarsi per il campo dice che bisognerà farsi venire un’altra idea anti-Hibbert per la finale della Eastern Conference.

Pensavamo sinceramente che le maglie con i soprannomi fossero una trovata un po’ triste, perchė non tutti i giocatori hanno un soprannome di battaglia conosciuto, ma l’entusiasmo riscontrato nei vari store per queste magliette ci ha fatto ricredere. In mezzo a orde di King James e D-Wade noi ovviamente abbiamo optato per Jesus.

Adorare la NBA significa anche non scinderla a da ciò che la rende possibile, cioè l’America. La coppia di fianco a noi, latina e locale al 200 per 100, è arrivata a metá del secondo quarto con in mano due piatti di ali di pollo fritte e guacamole, ha divorato il tutto a velocità supersonica e poi fino all’intervallo si è dedicata solo ad autoscattarsi foto sceme (seguirà pensoso editoriale sul fenomeno selfie). Poi è scomparsa, per ricomparire gli ultimi 2 minuti e urlare ‘D-Fense’. Sarebbero piaciuti a Thohir e Pallotta, ma probabilmente anche ad Agnelli e Berlusconi. Consumatori. Non più stupidi dei tifosi, ma senz’altro diversi.

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