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La democrazia è una bomba

Fabrizio Provera 15/05/2012

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Massimo Fini non lascia insensibili. Massimo Fini divide, da sempre. Massimo Fini si ama o si odia. Sin dagli anni Settanta, ossia da quando – figlio di Benso Fini, giornalista di lungo corso e collega di redazione, al Corriere, di Gaetano Afeltra, Bruno Fallaci (padre di Oriana) e Dino Buzzati – diventa una delle firme di punta dell’Europeo di Tommaso Giglio, il settimanale di Oriana Fallaci e moltissimi altri. Massimo Fini assunse, sin da allora, i panni e i connotati dell’eterodosso coraggioso, per certi versi integrale.

Come definire, del resto, uno scrittore che nella sua casa vicina a piazza della Repubblica, a Milano, conserva gelosamente l’opera omnia di Benito Mussolini e di Vladimir Ilic Iulianov, in arte Lenin? Uno che prende le difese di Paolo Longanesi, figlio del grande Leo, mentre viene malmenato dal Movimento Studentesco alla Statale di Milano, schierandosi contro i contestatori carezzati e coccolati dalla grande stampa? Uno che difende Enzo Tortora sin dagli inizi, a differenza di tutti (o quasi) i colleghi e della televisione, che prima santifica poi condanna in via preventiva l’inventore di Portobello? Uno che senza indugi ha custodito la memoria di Luigi Calabresi, in aperta polemica con Adriano Sofri e il clan di Lotta Continua?

Uno che frequentava i Consigli comunali di Milano, negli anni Settanta, essendo l’unico cronista di un giornale di sinistra (L’Avanti) che alla buvette di palazzo Marino a rivolgere la parola al barone Tomaso Staiti, fascistissimo consigliere del Msi? Uno che mandò al diavolo i maggiorenti del Partito Socialista nei primi anni Ottanta, quando spiccarono il volo mentre Fini abbandonava polemico la nave, pronta a salpare verso il potere? Uno che rifiuta un lauto contratto offertogli da Vittorio Feltri per scrivere su Il Giornale, perché Fini è antiberlusconiano vero e non post-litteram, soprattutto perché tifa Torino e aborrisce l’americanizzazione del calcio italiano ”indotta’ da Silvio Berlusconi nel 1986? Uno che negli anni Ottanta partecipa a un congresso del Fronte della Gioventù, il movimento giovanile del Msi, e si chiede polemico come mai la Destra italiana appoggi gli Stati Uniti, riscuotendo un applauso fantozziano (nel senso che durò svariati minuti)? Uno che si permette di criticare la politica dello Stato di Israele, lontano dalla benché minima tentazione di retorica antisemita?

Il Fini ultima versione, almeno per chi lo legge da poco e non da sempre come il sottoscritto (che dichiara apertamente la sua predilezione per il Fini pensiero, pur non condividendone talune posizioni, ma ammirandone il coraggio e la coerenza esemplare), è quello che da anni denuncia le storture e le violazioni del Diritto Internazionale degli Stati Uniti e delle forze occidentali che, dalla caduta del Muro di Berlino ad oggi, si sono impegnate in quelle che Fini chiama le Guerre Democratiche, innescate col grimaldello dei cosiddetti Diritti Umani. La Guerra Democratica, opera ultima del pensiero finiano edita da Chiarelettere, raccoglie articoli pubblicati tra il 1985 e il 2012 su diverse testate, accomunati dal tema: nello specifico le guerre tra Iran e Irak, quella del Golfo, contro la Serbia, la Libia, l’Afghanistan.

Per chi, come me, intervistò Massimo Fini nel 1993, quand’era sconosciuto ai più, la più grande soddisfazione è stata vedere ‘Sudditi’, un polemico pamphlet di Fini sulla guerra afgana, arrivare al primo posto nella classifica della saggistica, nel 2005. Da allora, e sino ad oggi, Fini continua a credere che “la guerra democratica si fa ma non si dichiara. La si fa chiamandola con altri nomi, preferibilmente missione umanitaria”. Fini crede che “il combattente che non combatte perde ogni legittimità, ogni dignità e ogni onore”, in primis i comandanti americani che nel 1991 uccidono, con le cosiddette ‘bombe intelligenti’, 32.195 bambini iracheni (lo scrive decine di volte, nel libro), sganciando ordigni comandati da basi collocate in America. Bombe sganciate contro uno Stato, l’Iraq, che nel 1985 viene armato fino ai denti dagli americani stessi, sovvertendo l’esito della guerra contro l’Iran di Khomeini, arrivato a pochi chilometri dal confine e da Baghdad e vincitore sul campo prima dell’intervento occidentale.

Fini crede che sia ipocrita l’atteggiamento di chi, come gli Stati Uniti, finanzia con cifre da capogiro gli insorgenti Talebani dal 1980 in poi (vicenda narrata in un bellissimo film, La guerra privata di Charlie Wilson, nel quale Tom Hanks dà il volto a un deputato democratico, bon vivant, un tantino puttaniere e amante del whisky scozzese single malt, che ottiene da Congresso e Cia la fornitura di armi in grado di abbattere gli elicotteri dell’Armata Rossa. Armi che in seguito saranno utilizzate per uccidere soldati americani, figli di contribuenti che di fatto hanno armato gli uccisori del loro stesso sangue), salvo poi gettarsi a capofitto in una guerra contro il Mullah Omar, leader degli ex alleati Talebani, che Fini tratta con malcelata ammirazione. Il Mullah che, ferito in battaglia, si estrae l’occhio dall’orbita per poi fasciarsi il capo, senza troppe lamentele. Il Mullah inseguito dai servizi di intelligence più ricchi e potenti del mondo, e che secondo la vulgata leggendaria fugge lungo gli altipiani e i deserti afgani in sella a un Caballero impolverato e sgangherato, come un qualsiasi adolescente di Cusano Milanino o di Pizzighettone nei primi anni Ottanta. Fini difende apertamente i Talebani, la loro legittimità a governare una nazione martoriata da decenni di guerra, a detta di Fini libera di autodeterminare il proprio destino.

La critica più serrata, tuttavia, Fini la rivolge contro l’intervento della Nato contro la Serbia di Milosevic, nei primi anni Novanta. La ragione è presto detta: “In Bosnia tre popoli, serbi, croati e musulmani, diversi per etnia, religione, cultura, divisi da rivalità ancestrali, si stanno battendo per spartirsi quel che resta della ex Jugoslavia, lottano per difendere quelle che ritengono essere le proprie terre, i propri costumi e i propri diritti. Nella ex Jugoslavia non ci sono né buoni né cattivi. Ci sono tre popoli che si battono per ragioni di certo non meno valide di quelle ideologiche, con cui i vincitori dell’ultimo conflitto mondiale hanno insanguinato il pianeta”. A Fini fanno orrore le presunte ragioni umanitarie che mascherano evidenti, e in molti casi comprensibili, ragioni di egemonia geopolitica, economica o commerciale. A Fini fanno orrore quelle società, e quei popoli, “che devono recuperare un po’ di coraggio, senso della dignità ed onore, un po’ di sana barbarie”.

Fini difende gli indifendibili: il Mullah Omar, i Taliban, Slobodan Milosevic, la Libia di Gheddafi. Ma per quale ragione? Fini non è un no-global, non è un sovversivo, ha mandato prosaicamente a fare in culo tutti o quasi i difensori dell’estremismo di sinistra che scende in piazza a bruciare bandiere americane o israeliane (cosa riprovevole, non certo costume di Massimo Fini). Il perché dell’avversione di Massimo Fini per le guerre democratiche è più sottile. Fini stigmatizza la guerra senza combattimento, citando l’esempio del comandante della missione Nato in Afghanistan, Tommy Frank, che guidava le operazioni dall’assolata Tampa, in Florida. Fini vede con terrore quel “totalitarismo tanto più pericoloso, perché spesso inconscio, che non riesce a riconoscere e nemmeno più a concepire la dignità e il diritto dell’altro da sé”.

E’ tutto qui. La ragione di un polemista di razza, la cui lettura è come un pugno allo stomaco, che costringe ciascuno di noi- comunque la si pensi, da qualunque orizzonte culturale e politico si provenga – a fare i conti con il lato oscuro della modernità. Ma George Lucas, Dart Fener e Guerre Stellari purtroppo non c’entrano, e non bastano a spiegare perché anche i più incalliti liberali e filo occidentali- se sinceri- non possono rimanere insensibili alle cannonate di Massimo Fini.

Che una sola volta sola si tradì, davanti al sottoscrittto, circa la sua ‘vera’ fede politica: “Ricordo con immenso piacere, negli anni Settanta, quando mi toccò seguire la cronaca di un processo contro due anarchici libertari, fondato sul nulla. E infatti alla fine vincemmo noi”. Ma lei era indagato? Perché usa il noi? “Non ero tra gli indagati. Vinse la nostra immortale utopia, quella di coniugare libertà e giustizia sociale”.

Fabrizio Provera, 15 maggio 2012

Massimo Fini, ‘La guerra democratica’ – Chiarelettere edizioni, pagine 290, euro 14.90

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