Il ponte delle spie, Spielberg e il marketing della Guerra Fredda

28 Dicembre 2015 di Stefano Olivari

Un genio come Steven Spielberg non può aver mandato nelle sale un film come Il Ponte delle spie. Forse una sottile presa in giro del gusto medio dello spettatore, senza l’alibi del film per ragazzi, più probabilmente il desiderio di sfruttare quel filone che potremmo definire ‘Nostalgia della Guerra Fredda, dove tutti facevano i cattivi ma noi popolo di Spielberg eravamo al sicuro con i nostri fumetti e i nostri super-eroi’. Come tutti i film ‘democratici’ di Spielberg, da Schindler’s list a Lincoln (che curiosamente era repubblicano), è tratto da una storia vera: la vicenda degli aerei spia americani, che sul finire degli anni Cinquanta e inizio Sessanta portò a ripetute crisi fra gli USA e URSS, con annessi scambi di prigionieri troppo importanti per essere lasciati vivi nelle mani del nemico.

Nel caso del Ponte delle spie i prigionieri erano il pilota statunitense Francis Gary Powers e la spia sovietica (inglese di nascita) Rudolf Abel, con il quale il regista chiaramente simpatizza anche se nel film non si capisce perché. L’Abel reale, agente di punta dell’NKVD prima e del KGB poi, fu un uomo chiave nell’organizzare la resistenza tedesca al nazismo durante la guerra, ma soprattutto nel mettere in piedi clamorose operazioni di disinformazione, la più famosa delle quali è l’operazione Scherhorn (come può non esistere un film sull’operazione Scherhorn?), quando Abel e altri si inventarono una radio che raccontava di mirabolanti imprese di un gruppo di immaginari soldati tedeschi lasciati senza comando, con lo scopo di catturare veri soldati tedeschi mandati ad aiutarli.

Il giudizio di Spielberg sul nazismo ha quindi uno sviluppo etnico, da Indiana Jones ai giorni nostri, perché quasi tutti i tedeschi (fanno eccezione Schindler e pochi altri) dei suoi film sono sgradevoli: nazisti, comunisti della Germania Est, semplici soldati o passanti, addirittura anche gli americani di origine tedesca come l’agente della CIA che coordina l’operazione che vede Tom Hanks come negoziatore tutto di un pezzo in una Berlino fresca di muro, con una famiglia da immaginario anni Cinquanta o da design Smeg. Il problema non è comunque tanto come Spielberg veda i tedeschi, per quanto il razzismo vada censurato anche quando riguarda i biondi, ma il film in se stesso che non è all’altezza della storia di chi lo ha girato. Però dobbiamo anche dire, togliendoci per un attimo la giacca di velluto con le toppe sui gomiti, che applausi in sala alla proiezione di un film non li sentivamo da tanto tempo. E per Il Ponte delle Spie li abbiamo sentiti.

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