Ciclismo
Un Giro meglio di quelli Moser-Saronni
Simone Basso 19/05/2015
Pallini nemmeno fosse morbillo, anche se i pois rossi ricordano la concorrenza, per commentare la vernice del Giro 2015. Si riparte da Civitanova Marche, luogo della prima giornata di riposo. E la situazione è più o meno quella prevista. Gran folla, soprattutto in Liguria, ci si chiede dove fosse il pubblico in occasione di altre gare italiane; non solo quelle giovanili, persino le ultime Milano-Sanremo. Quest’anno, sul Poggio, sarà stato il meteo mediocre o la poca abitudine alla data domenicale, c’erano veramente quattro gatti. Così, osservando la baraonda popolare lungo le strade, ci si limita a una battuta: sembra il Tour of Yorkshire.
La corsa rosa, disegnata con più rispetto della logica e della storia rispetto a Tour e Vuelta, conferma ormai una vis agonistica standardizzata. Se il Giro – una volta – era contesa tattica, oggi l’approccio è simile alla Grande Boucle. ‘A bloc tutte le frazioni, con l’incrocio (pericoloso) degli interessi degli uomini di classifica con il resto del mondo, ovvero i predatori di tappe o di maglie (e contratti).
Corrono sul filo, limando l’impossibile, con le squadre dei migliori (la Tinkoff-Saxo di Contador, l’Astana per Aru, Porte e il Team Sky) costrette a un superlavoro che pagheranno, con gli interessi, nel climax della settimana decisiva. Le differenze con la Festa di Luglio sono due ed evidenti. Il Giro, malgrado qualche bel nome, non ha la lista dei partenti (quindi il livello tecnico assoluto) del Tour.
La qualità dei percorsi rosa distanzia invece di parsec quella dei cugini francesi: la ricchezza di salite e strappi del Bel Paese, la varietà dei tracciati, la Benevento-San Giorgio del Sannio di domenica pareva la vecchia Freccia Vallone, non ha paragoni. Lo sanno pure gli atleti, che in molti casi preferirebbero il Giro al Tour; il blockbuster dell’ASO regala soldi e glorie infinite, ma costringe i ciclisti a una pressione inumana.
Il movimento italiano è nel bel mezzo di un (delicato) passaggio generazionale, un po’ bipolare.
Dopo il boom dei Novanta, e la deflazione dei tempi recenti, il motto imperante è Pochi Ma Buoni.
La quantità – clamorosa – del passato non è riproponibile anche per l’evoluzione globale (e sanitaria) di questo sport. Malgrado una Federazione sterile, che vivacchia all’ombra del dinamismo del cittì Davide Cassani, i talenti ci sono. Confrontandoli all’altroieri, i classicomani futuribili non sono tanti (Bonifazio, Ulissi, Felline, etc.), in compenso stanno sbocciando diversi tappisti, che vorrebbero ripercorrere il cammino di Vincenzo Nibali. La vittoria, esaltante, di Davide Formolo a La Spezia, ne ha rivelato le doti sul proscenio più importante. Il veronese, ventitre anni il prossimo 25 Ottobre, ha lo chassis per diventare l’antiAru del prossimo lustro. I due comporrebbero così una (potenziale) rivalità che servirebbe parecchio ai media tricolori, legati culturalmente – da eoni – alle dispute tra Guelfi e Ghibellini. Formolo, precoce, dovrà ancora crescere: fisico ed esperienza. Corridore più classico, passista scalatore filiforme (un metro e 81 per 62 chili), se affiancato al grimpeur sardo, un colombiano (!) per il notevole rapporto peso potenza. Fabio, dal canto suo, che ha corso pochissimo (quindici dì) prima del Giro, è alle prese con la primissima corsa a tappe da capitano. L’Aru 2015 ha lavorato sulla frequenza di pedalata, aumentata sopra le novanta al minuto, un accorgimento per non intossicare (troppo) le gambe, preparando la botta, lo scatto. Se il retroterra di Formolo è l’iter normale da stradaiolo, Aru arriva dal ciclocross. Al di là dell’esempio – solitario – di Elia Viviani, pistard e sprinter di alto livello, l’Italia non ha ancora sviluppato una scuola multidisciplinare, che sfrutti i vantaggi di ogni specialità per costruire i prossimi protagonisti dei Monumenti e dei Grandi Giri. In sintesi, nessun azzurro del futuro è uno Stefan Kueng.
A proposito dello sparuto drappello rossocrociato: il pomeriggio dell’Abetone abbiamo ammirato un generoso Silvan Dillier. E, salendo verso Campitello Matese, si è visto Sébastien Reichenbach; ahilui gabbato tatticamente dalla recita del solito Inxausti. Il venticinquenne di Martigny, una promessa, ha bisogno di conferme per capire il suo ruolo nel ciclismo che conta. Nella stessa fuga, una sfinge, la silhouette inconfondibile di Carlos Betancur. Il colombiano, che appartiene di diritto alla nidiata d’oro dei Quintana e Uran, è un soggetto che spiega benissimo le montagne russe del mestiere. Lo ricordiamo, cinque anni fa (2010), dominare – ad appena vent’anni – il GiroBio, sigillando la vittoria con un assolo sul Monte Grappa. Classe, cambio di ritmo da ras e spunto veloce, e fondo. Nel 2014 Betancur ha stravinto la Parigi-Nizza, mostrando uno chassis unico, trattandosi forse del solo bipede del dopo Andy Schleck col talento (multiforme) per ambire contemporaneamente a una Liegi-Bastogne-Liegi e a un Tour. Peccato che, nel periodo successivo ai trionfi di quel Marzo, reduce da una trasferta premio in Sudamerica, si sia ripresentato in Europa il gemello grasso di Carlos… Per mesi si è scorto in fondo al plotone, con una forma fisica inaccettabile per uno del suo rango. Solo adesso, timidamente, sta riaffacciandosi davanti: l’AG2R, la sua squadra, prova – più o meno disperatamente – a gestirlo. Un’impresa leggere l’oroscopo del nostro: un’altra estate mesta, fatta di apparizioni incolori, o il successo nel Giro di Lombardia.
Trent’anni fa il Giro più brutto mai visto da suiveur. Gli Ottanta furono un’era medievale per il ciclismo italiano, legato indissolubilmente al carro di Moser e Saronni. Torriani, non pago della sceneggiatura che favorì l’affermazione di Moser nel 1984 (nonchè la sconfitta del povero Fignon e una selva di sputi e insulti a Visentini..), raddoppiò ideando una competizione evirata delle grandi montagne. Una sola tappa dolomitica, uno spuntino che finì a Selva di Val Gardena (e che andò a un eccellente Hubert Seiz), e – quasi in conclusione – l’arrivo al Gran Paradiso. Il resto fu abbastanza creativo: da un traguardo sul Gran Sasso – prima affermazione di Chioccioli al Giro – che evitò il tratto più impegnativo, al “tappone” italo-svizzero – la Domodossola-Saint Vincent – attraverso il Sempione e il Gran San Bernardo. Per rientrare in Italia, l’organizzazione fece passare i girini dalla superstrada e in galleria: chiusero assieme in cinquantatre e si impose l’inevitabile Moser, che sognava di ripetere la rimonta dell’edizione precedente. Non fu così, col senno di poi Bernard Hinault si era aggiudicato il terzo Giro della carriera nella crono Capua-Maddaloni: era il 29 Maggio 1985, quella sera lo sport europeo visse – a Bruxelles, allo stadio Heysel – la sua più grande tragedia.
Erano Giretti comodi per i velocisti e il Principe di tutti loro, in quell’85, realizzò un bel tris. Urs Freuler, che sfoggiava la divisa dell’Atala, divenne il punto di riferimento delle ruote veloci. Fuoriclasse dei velodromi, dieci maglie iridate tra Individuale e Keirin, sontuoso nelle volate (colpo d’occhio, malizia, potenza) e discesista straordinario. Il suo diesse, Franco Cribiori, sosteneva che Urs desse il minimo sindacale; troppo bello e “piacione” per realizzare un potenziale (quasi) alla Hugo Koblet. Amarcord, l’ascesa a Valnontey rivelò l’estro di Andrew Hampsten, lui sì vincitore di un Giro memorabile (1988). Dalle parti dei cosiddetti big, nell’epilogo, si vide un allungo di Emilio Ravasio. Luogotenente di Freuler, scortò Urs in maglia rosa nella prima frazione in linea del Giro successivo: cadde, raggiunse comunque Sciacca e, in albergo, si sentì male. Aveva sbattuto la testa: entrò in coma e morì un paio di settimane dopo. Quando vediamo un ciclista cadere, pensiamo sempre a quelli come lui.
Pubblicato il 19 Maggio 2015 da Il Giornale del Popolo