Basket

Il doppio fallimento di D’Antoni

Stefano Olivari 15/03/2012

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di Stefano Olivari
Mike D’Antoni ai Knicks ha fallito, anche se per un italiano appassionato di pallacanestro è difficile dirlo. Così come è difficile scrivere, se vuoi una pseudo-intervista con citazione dello sponsor, che Bargnani ha buone statistiche solo in contesti perdenti (Raptors e Nazionale), Gallinari rispetto alla sua entrata nella NBA è migliorato solo fisicamente, Belinelli è un comprimario che se non fosse bianco e italiano (il marketing va rispettato, ma almeno diciamo la verità) ne avrebbe davanti mille. Insomma, su chi da una vita seguiamo con affetto in maniera unilaterale (noi siamo andati a Losanna e in tanti altri posti per Mike, ma giustamente Mike non leggerà in vita sua una sola riga di Indiscreto) non riusciamo ad essere onesti, però le dimissioni-esonero di D’Antoni non possono essere ridotte solo ad una squadra sbagliata (il termine di moda è ‘disfunzionale’) e ad una stella come Anthony che vuole sempre la palla in mano e impedisce lo sviluppo della filosofia dantoniana che ai Suns e nella Milano post Dawkins aveva trovato i suoi sfoghi migliori.
D’Antoni allenava i Knicks dal 2008, con un contratto da 6 milioni di dollari annui (oltre questa fascia c’è solo Phil Jackson, non a caso probabile uomo della Provvidenza dei Knicks del futuro) e in una situazione tecnica molto comoda. In pratica Donnie Walsh, appena arrivato dai Pacers come superdirigente al posto del disastroso Isiah Thomas, gli aveva fatto un discorso di questo tipo: per due anni gioca un basket divertente, senza ambizioni di playoff ma che non faccia svuotare il Garden, noi ci liberiamo di tutti i contratti onerosi (su tutti quello di Marbury) e ci presentiamo belli leggeri alla corsa per LeBron James, Wade, Bosh, eccetera. Come è andata lo sanno tutti, non solo a Miami: due anni di cattivo basket, nemmeno poi così dantoniano, con gente sempre sull’orlo di essere ceduta e operazioni di mercato spesso strampalate (tipo la cessione di Zach Randolph) anche se quasi mai imputabili a D’Antoni. Nell’estate 2010 come stella è arrivato Stoudemire e per qualche mese si è visto (noi popolo di League Pass abbiamo visto questo, almeno) del gran pick and roll con Felton e coinvolgimento di un finalmente sano Gallinari, di Wilson Chandler e dell’allora rookie Landry Fields. E’ stato questo il miglior periodo di D’Antoni ai Knicks, stoppato dalla megaoperazione con i Nuggets che gli ha messo in casa l’indesiderato Carmelo. In altre parole, i Knicks in quel momento hanno scelto una strategia NBA tradizionale: un paio di stelle mangiapalloni, giocatori di ruolo e un manipolo di gregari. Playoff raggiunti per la prima volta dal 2000, con massacro al primo turno subito dai Celtics. Il resto è storia di oggi, con la terza (o seconda e tre quarti) stella Tyson Chandler, Anthony superstar e Stoudemire limitato (anche dai suoi limiti tecnici). L’esplosione della Linsanity, con momenti di puro dantonismo garantiti anche dai Novak e dai Fields della situazione, ha dato un po’ di ossigeno al record, ma poi il troppo talento (Davis, J.R. Smith) male assemblato ha portato a una fine inevitabile. Per riprendere un concetto caro ai calciofili, D’Antoni è un allenatore da progetto e non un motivatore-distributore di maglie. Ma a New York ha fallito sia quando poteva proporre il suo basket, nei primi due anni, sia quando ha dovuto accettare quello impostogli dall’alto e dalla tradizione.

Twitter @StefanoOlivari 

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