Giornalismo al Bezos

7 Novembre 2013 di Dominique Antognoni

Un grande evento, l’acquisto del Washington Post da parte di Jeff Bezos. Uomo ambizioso che non ama i fronzoli, diventato ricchissimo grazie ad Amazon e alla sua trasformazione da negozio online di libri a negozio online di praticamente tutto. Si è scritto parecchio sull’argomento, senza mai arrivare al nocciolo del problema. Ovvero, cosa cambierà in un quotidiano che perdeva soldi a palate da anni? Bezos si comporterà da imprenditore puro o da editore snob e idealista? Certo, essendo l’undicesimo nella classifica dei più facoltosi americani (ha un patrimonio stimato ai 25,2 miliardi di dollari), si può permettere un giocattolo come il Washington Post, costato due noccioline rispetto al suo conto in banca: 250 milioni sono esattamente l’uno per cento delle sue ricchezze.

Jeffrey Preston Jorgensen Bezos, questo il suo nome completo, è diventato famoso nel 1994 quando fondò Amazon. Nel 1999 è stato eletto l’uomo dell’anno per la rivista Time, mentre nel 2012 Fortune lo ha messo in cima alla classifica degli imprenditori. Che bisogno aveva di comprarsi un cadavere, visto com’era diventato il Washington Post, un grande nome ma con tanti debiti? Cercherà di farlo diventare profittevole, per quanto l’impresa sembra ardua? Se la risposta è sì, come si muoverà? Ci piacerebbe anche sapere cosa chiederà ai giornalisti e soprattutto se penserà di mandare via quelli pigri e scarsi, ammesso che ne esistano in una testata così prestigiosa. Ad Amazon funziona così: ogni manager riceve una mail con un punto interrogativo e una lettera di protesta di un cliente. Chi la riceve trema, perché il licenziamento è vicino. D’altronde la cultura del vero capitalismo, quello che non scarica sul bilancio dello stato i propri fallimenti, non è per tutti.

Comunque, se un giornale perde soldi a iosa un perché ci sarà: ok il calo pubblicitario, ma fino alla prova contraria la gente compra il quotidiano per i contenuti. Se non ci sono, il lettore non torna in edicola. In altre parole impossibile che un giornale di qualità, in un paese di oltre 300 milioni di abitanti, possa andare così male da essere vicino alla chiusura. Colpa dei giornalisti? Sicuro, ma non solo. Per fare un esempio Il Boston Globe, 141 anni di storia, è stato appena venduto per 70 milioni di dollari dopo essere stato pagato più di un miliardo qualche anno addietro, una svalutazione epocale. Nonostante la straordinaria copertura nell’occasione dell’attentato alla maratona della città il quotidiano stava fallendo. Dal 2003 la diffusione era scivolata del 38 per cento, la raccolta pubblicitaria di quasi il 10 per cento. Stessa sorte per Variety, la bibbia dello spettacolo.

Cosa farà Bezos? Li sostituirà con altri, di un livello e soprattutto con una voglia maggiore? Esistono ancora dei giornalisti con una voglia pazza di raccontare storie ogni giorno? La risposta è sì. Noi sfogliamo Wall Street Journal, International Herald Tribune e Financial Times quasi quotidianamente  e rimaniamo impressionati dalla verve degli autori. Articoli lunghi, pieni di dettagli, idee, concetti, opinioni: serietà ma non seriosità, chiarezza ma non banalità. Il contrario dei giornali nostrani, quelli che si definiscono istituzionali: un inno alla pigrizia, all’inerzia e allo stipendio come unico senso della vita.

Probabilmente Bezos cercherà di sperimentare nuove forme di integrazione verticale nel business dell’informazione, sfruttando la rete di vendita online di Amazon. Controlla già il più potente strumento di distribuzione digitale di contenuti editoriali, il Kindle. Certo, recuperare i 250 milioni investiti sarà dura, per lo meno a breve termine. L’esercito dei frustrati, sempre in agguato, commenta livoroso (come le loro vite) e superiore: “I ricchi si regalano i quotidiani come se fossero delle Ferrari o degli yacht”. Anche fosse, non è vietato. Dunque Bezos come si comporterà? Entrerà in redazione e dirà “Da oggi si cambia”? In Italia sarebbe impensabile, perché i vari sindacati, comitati di redazione e altri pesi morti ostacolerebbero qualsiasi novità. D’altronde se nella penisola si legge poco non è per colpa della gente bensì dei giornali stessi: tediosi e autoreferenziali, hanno stancato anche i lettori più motivati e non trovano di meglio che incolpare il web. Non a caso commentando la situazione del Washington Post hanno scritto, comicamente: “I redattori hanno accettato l’intervento di Bezos come il male minore”. Ah, si? In caso contrario, cosa avrebbero potuto fare? Dire di no e rimanere a casa? Hanno accettato, bontà loro….

(per gentile concessione dell’autore, fonte: Good Life)

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