L’Inghilterra conquistata dai tedeschi

Il modo in cui Tuchel e Klopp vengono idolatrati fa riflettere sullo stretto e strano rapporto, non solo nel calcio, fra due paesi che non dimenticano il passato. Anche se il politicamente corretto sta travolgendo tutto...

7 Maggio 2021 di Roberto Gotta

Thomas Tuchel porta il Chelsea in finale di Champions League, diventa l’eroe di una parte di Londra e permette a noi peones di aggiungere una pagina al già ricco campionario di aneddoti, considerazioni, storie sul rapporto, molto particolare, tra tedeschi e inglesi (o britannici), tra Germania e Inghilterra. Spesso riassunto in quattro paroline: don’t mention the war. Non parlare della guerra.

La battuta di John Cleese, alias Basil Fawlty, nella serie televisiva Fawlty Towers è tra le più memorabili nella storia della televisione britannica. Basil è lo sgangherato proprietario di un hotel di provincia che un giorno, avendo tra gli ospiti un gruppo di turisti tedeschi, sussurra alla sua cameriera di ‘non menzionare loro la guerra’, salvo perdere la testa e uscirsene con una serie di battutacce e riferimenti, culminati in un’uscita e rientro dalla sala da pranzo con un accentuatissimo passo dell’oca e l’indice della mano destra sotto il naso, ad imitare il baffetto alla Hitler (Cleese/Fawlty era baffuto di suo, ma il dito voleva accentuare la caricatura). Da quel momento, don’t mention the war è la frase che in qualche modo viene tirata fuori ogni volta che l’Inghilterra gioca contro la Germania: come ammonimento ai tifosi, specialmente in trasferta tedesca, cui viene appunto ricordato di non fare riferimenti alla Seconda Guerra Mondiale e lasciar perdere qualsiasi stereotipo. Lo stesso Cleese, prima dei Mondiali tedeschi del 2006, incise un brano, a dire il vero di scarso impatto, con quel titolo, proprio per ricordare alle decine di migliaia di supporter di evitare di mettersi nei guai con canti e gesti. E la frase è in generale entrata nel linguaggio comune, perché nonostante il susseguirsi di generazioni l’ombra del periodo bellico, seppur attenuata, aleggia ancora.

Giusto per complicare il già contorto e contraddittorio, ma profondo, legame tra Regno Unito e Germania. Da Giorgio I (Georg Ludwig, lingua madre il tedesco) alla celebre Regina Vittoria, la famiglia regnante britannica appartenne al casato degli Hannover, ovviamente tedeschi; il figlio ed erede Edoardo VII appartenne a quello di Sassonia-Coburgo-Gotha, e dopo di lui venne Giorgio V, cugino dell’ultimo zar di Russia, Nicola II. Con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, cui contribuì in maniera decisiva un altro cugino, l’imperatore tedesco Guglielmo II – considerato non del tutto stabile mentalmente da alcuni parenti – l’ostilità anti-tedesca dei britannici consigliò a Giorgio V di mutare il nome della dinastia in Windsor, semplicemente in onore di uno dei castelli preferiti dalla nonna Vittoria: «Avendo preso in considerazione il nome e il titolo della Nostra Casa Reale e della Nostra Famiglia, abbiamo determinato che d’ora in poi verranno cambiati e chiamati dunque Casa e Famiglia di Windsor… e dunque Noi, i Nostri discendenti e quelli della Nostra Nonna Regina Vittoria, di cui si conserva un ricordo benedetto e glorioso, abbandoniamo e interrompiamo l’utilizzo di tutti i titoli di origine tedesca» diceva l’editto del 17 luglio 1917, dunque non proprio nei primi giorni del conflitto. Cambiava il nome, non la linea di sangue, e del resto il Principe Filippo, scomparso poche settimane fa, era nato in Grecia da Andrea di Grecia, del casato (abbiate pazienza…) di Schleswig-Holstein-Sonderburg-Glücksburg, e da Alice di Battenberg, divenuto poi ‘Mountbatten’ durante quella guerra sempre per occultarne l’origine. Detto per chiudere, in qualsiasi momento il monarca o la monarca britannica possono annullare l’editto del 1917 e ridare al casato il nome originario, ma non si tratta di un’eventualità probabile, anche perché nel 1952 fu l’attuale Regina Elisabetta a confermare l’adozione del termine ‘Windsor’ anche per le discendenti femminili, originariamente non obbligate ad assumerlo.

Insomma, un caos. Con la Seconda Guerra Mondiale a causare un distacco netto e portare, decenni dopo, al don’t mention the war e a tutta una serie di situazioni tra l’imbarazzante, lo sconcertante e il grottesco, in una rivalità che tra l’altro è quasi sempre in una direzione sola, perché ai tedeschi interessa più battere ad esempio gli olandesi che non gli inglesi. Nel 1996, prima della semifinale degli Europei, a Wembley, tra Inghilterra e Germania il quotidiano Daily Mirror si esibì in una spettacolare, esilarante, carnevalesco, imbarazzante show: in prima pagina una fotomontaggio di Stuart Pearce e Paul Gascoigne con elmetto in testa, il titolo ‘ACHTUNG, SURRENDER!’ (Arrendetevi!) e il sommario ‘For you Fritz, ze Euro 96 Championship is over’ (per te, Fritz, gli Europei 1996 finiscono qui), con ‘ze’ ad imitare la pronuncia tedesca di ‘the’ e ‘Fritz’ ad identificare lo stereotipato nome tedesco. Nella colonnina di destra, un editoriale in cui il direttore, Piers Morgan (da lì soprannominato ‘Guten Morgan’), dichiarava ‘guerra calcistica’ alla Germania, imitando l’analoga dichiarazione del Primo Ministro Neville Chamberlain del 1939. E non solo: Morgan aveva pensato noleggiare un caccia della Seconda Guerra Mondiale e usarlo per lanciare volantini su Berlino, e di mettersi alla guida di un carro armato e parcheggiarlo davanti all’ambasciata tedesca. Già per la partita contro la Spagna aveva lavorato sullo stereotipo, pubblicando una lista delle 10 sciagure che la Spagna aveva inflitto al mondo, tra cui la sifilide e la paella. Altri quotidiani avevano dato il loro contributo: il Sun titolò ‘Let’s Blitz Fritz’ (il Blitz, abbreviativo di Blitzkrieg ovvero guerra lampo, era stato l’attacco aereo tedesco tra 1940 e 1941, principalmente su Londra, con due milioni di case – e alcuni stadi di calcio – danneggiate o distrutte e circa 40.000 vittime), lo Star preferì ‘Herr we go, bring on the Krauts’, ove Kraut è il nostro ‘crucco’, che nasce da un termine riferito al pane. Ci furono ovviamente reazioni sconcertate e polemiche da parte di molti, comprese aziende che cancellarono pagine pubblicitarie, e un ex segretario alla Difesa, Lord Healey, disse «gli omuncoli che scrivono cose del genere dovrebbero ricordarsi che anche i membri della nostra Casa Reale sono crucchi e che il mio attuale successore è un Dago» (Dago=termine dispregiativo per definire italiani o spagnoli, il ministro era Michael Portillo, di padre spagnolo).

Lezione appresa? Macché: 2000, a Wembley, per l’ultima partita nel vecchio stadio, arriva la Germania nell’andata della doppia sfida del girone di qualificazione ai Mondiali del 2002, e una pubblicità recita ‘The Krauts are coming’, anche se la commissione di vigilanza di settore decretò che si trattava di una presa in giro bonaria. Il bello è che ci furono segnalazioni anche alla CRE, la Commissione per l’Uguaglianza Razziale, costretta nell’occasione a ricordare al grande pubblico che anche i tedeschi, in quel caso, erano da considerare minoranze offese. Offese, o forse no: la corrispondente da Londra del quotidiano Bild Zeitung, Katja Banik, disse «Kraut non è una parola che sia bello ascoltare ma non è certo un’offesa da fine del mondo, non è che siamo così privi di senso dell’umorismo», aggiungendo però che il suo giornale non si sarebbe mai sognato, neanche per scherzo, di chiamare gli inglesi ‘Tommies’ (il soldato britannico nella Prima Guerra Mondiale) o ‘Inselaffe’ (scimmie dell’isola, epiteto riferito ai britannici).

Non ci siamo proprio, insomma. O meglio, non c’eravamo, in quegli anni. E però in campo calcistico il legame, quello scevro dalle recite pre-partita, è sempre stato abbastanza vivo, a vari livelli, e l’ammirazione inglese per i tedeschi è sempre stata carsicamente fluida, espressa anche dal banale, ma famoso e significativo, «il calcio è semplice, 22 uomini inseguono una palla per 90 minuti e alla fine vincono i tedeschi», pronunciato anni fa da Gary Lineker. Jürgen Klinsmann, arrivato nell’estate del 1994 nello scetticismo generale per la sua reputazione di simulatore, fece cambiare subito idea, tuffandosi ironicamente per festeggiare la sua prima rete in Premier League e diventando uno dei calciatori più popolari del campionato: venne poi eletto Footballer of the Year per quella stagione 1994-95, stesso riconoscimento che nel 1956 era andato a Bert Trautmann, l’ex paracadutista tedesco, prigioniero di guerra, che aveva preferito restare in Inghilterra e – pur tra forti proteste iniziali e l’appellativo di ‘Traut the Kraut’- aveva raggiunto una notevolissima popolarità.

Col passare degli anni i calciatori hanno lasciato spazio agli allenatori, e l’ammirazione per la recente generazione di tecnici tedeschi è a livelli quasi imbarazzanti, quasi acritici, come accadeva nei secondi anni Novanta per i calciatori italiani, ritenuti – in un calabraghe di notevoli e sorprendenti dimensioni, per le abitudini dei media inglesi – colti, raffinati, eleganti a prescindere. L’esempio di un gentiluomo come Gianfranco Zola era servito, così come l’immagine data dalla celebre trasmissione Gazzetta Football Italia, il cui conduttore, James Richardson, era spesso ritratto mentre sfogliava un quotidiano sportivo, seduto ad un tavolino all’aperto, preferibilmente al sole. Una fotografia non meno stereotipata di quella del kraut, ma in senso buono, al punto che persino una delle descrizioni di Ruud Gullit, al suo arrivo al Chelsea, verteva sull’ammirata constatazione che la sua colazione consistesse in un cappuccino, bevanda che nell’immaginario inglese dell’epoca equivaleva alla raffinatezza e alla libertà mentale. Come se il cappuccino, da noi, non lo prendessero anche buzzurri ed ergastolani.

E allora: tutti bravi gli italiani che arrivavano in Premier League a fine anni Novanta e tutti fenomeni gli allenatori tedeschi che ci sono arrivati negli ultimi anni, dopo i brutti risultati di Felix Magath col (già malmesso) Fulham nel 2014. Il bello è che è vero: David Wagner e Jan Siewert non hanno avuto successo con l’Huddersfield Town (che però Wagner aveva portato in Premier League) ma di Jürgen Klopp è inutile ricordare i successi e il profilo, con descrizioni quasi agiografiche, mentre a Norwich Daniel Farke è già alla seconda promozione in Premier League in tre anni, con un lavoro ritenuto di tale qualità da avergli permesso di restare tranquillamente al suo posto nonostante la retrocessione del 2019-20.

E ora Tuchel, descritto da un quotidiano, alla sua prima partita da allenatore del Chelsea, come ‘presenza che colpisce, figura alta e dai tratti nitidi’, per la tuta aderente indossata, evidentemente, con grazia e addirittura solennità. Chelsea molto migliorato – non rivoluzionato, attenzione: a leggere certe cronache pare che Frank Lampard l’avesse lasciato ultimo in classifica e senza traccia di impostazione tattica – e doppio finalista e sguardo che va già in cerca di nuovi allenatori tedeschi: peccato solo che un altro idolo dei media inglesi, Julian Nagelsmann, si sia già accasato, ma presto altri arriveranno e il loro nome verrà immediatamente associato a questo o quel club. Passata la moda degli allenatori italiani, specialmente al Chelsea stesso, ora si è virato verso la scuola tedesca, meglio ancora se con l’etichetta del Borussia Dortmund, da cui sono passati tutti i tecnici tedeschi arrivati in Premier League dal 2015 in poi.

Altro che crucchi, o crauti, altro che menzionare la guerra, altro che lo stoicismo ‘diverso’ e squisitamente britannico del ‘Perlomeno siamo in finale, e giochiamo in casa’, come disse nel giugno del 1940 l’anonimo passeggero di un autobus, udito da un giornalista, descrivendo l’imminente Battaglia d’Inghilterra, parte del tentativo di resistere al Blitz. La malcelata ammirazione inglese per i tedeschi, sul piano calcistico, è diventata poco alla volta più netta dei millimetri che nella finale dei Mondiali del 1966 separarono il pallone calciato da Geoff Hurst dalla linea di porta, nel famoso gol (o non gol) che contribuì al 4-2 finale. Se Tuchel arriverà fino in fondo, se ‘batterà’ ancora Pep Guardiola, se diventerà uno dei cavalieri che fecero l’impresa, il fiume di articoli con la descrizione del superiore metodo di preparazione e certificazione tecnico-tattica tedesco diventerà ondata e travolgerà tutti, mandando a gambe all’aria, a guardare il cielo, anche la diffidenza di facciata.

PS: è di ieri la notizia che la federazione inglese, la Football Association, cambierà il proprio logo in tutti gli ambiti, tranne che sulla maglia della nazionale. Non più i Tre Leoni ‘chiusi’ (?) nel profilo di uno scudetto ma un leone, una leonessa e un cucciolo senza linee attorno. Sì, esatto, è quello che molti di voi temono di avere capito: un logo ‘senza confini… a simboleggiare l’avanzamento, una maggiore inclusività e facilità di accesso a tutti i livelli’. E… no, niente.

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