Destinazione Palalido

29 Novembre 2012 di Stefano Olivari

Il crollo degli abbonamenti in serie A, le magliette di LeBron James, la scelta di D’Antoni e il perché di questa rubrica.

1. Forse per questioni di età, o forse perché siamo italiani, continuiamo a seguire il basket italiano: dalla serie A alle minors, cercando di evitare buona parte di quello che sta in mezzo. La notizia non è che gli abbonati della A siano in calo, ma che ci siano ancora migliaia di persone disposte a spendere soldi e tempo per seguire squadre senza identità, né tecnica né etnica, a volte con otto stranieri (per chi sceglie la formula con tre extra, quattro comunitari a volte farlocchi e un italiano naturalizzato) e quattro agitatori di asciugamani, fatta eccezione per qualche azzurro o ex azzurro. Interessante l’analisi pubblicata qualche giorno fa sulla Gazzetta dello Sport riguardante gli abbonamenti 2012-13: un calo per quasi tutti, con differenti motivazioni. Anche chi, come Cantù e Milano, può arrivare allo scudetto con maggiori probabilità rispetto all’anno scorso ha registrato una diminuzione dei fedelissimi rispetto all’anno scorso (a Cantù sono 3.099, a Milano 1.681), cala di oltre il 10% anche Bologna (3.099) mentre finito (?) il grande ciclo Siena capeggia la classifica della fiducia con 4.578. Numeri da ponderare, perché spesso i paganti cambiano le valutazioni (vero soprattutto a Bologna, anche a Milano quando si vince) e ogni società ha sue politiche di prezzo. In generale si può dire che senza uno sponsor che metta soldi veri dovrebbero tutti chiudere, Montepaschi compresa, ma non lo scopriamo certo oggi (e non vale solo per il basket). La contabilità è importante, ma ancora di più lo è la passione: perché una persona interessata al basket dovrebbe andare a vedere partite di serie A, LegaDue, DNA, eccetera, quando in televisione o sul computer può vedere tutta la NBA, le conference più importanti della NCAA, l’Eurolega, la ACB? L’unica spinta può essere il legame emotivo con quella squadra, la sua capacità di rappresentare i suoi tifosi. Non certo il valore tecnico dei giocatori: bravissimi Moss, Langford, i cugini Diener, Dunston, ma sappiamo che sono da noi perché non li hanno voluti a casa loro. Nessuno è considerato degno di far parte dei primi 450 giocatori del mondo, in altre parole. Se andiamo a vedere una squadra italiana non chiediamo insomma lo spettacolo NBA, ma l’appartenenza. Che va al di là di un vago ‘produrre giocatori per la Nazionale’, visto che le peggiori regole di sempre hanno prodotto la miglior generazione (come talento, non come risultati) di italiani da Nazionale di sempre.

2. Le Bron James è il più grande giocatore in attività, ma per dirla alla Mara Maionchi ‘non ci arriva’ pur non facendo parte degli odiatori a prescindere. Ci trasmette meno brividi, per rimanere in un contesto NBA, dello hero basketball di Bryant, della pulizia di Durant, della lucida follia di Rondo, degli ultimi hurrah di Ginobili. Ma è questione di gusti. Meno opinabile è invece la classifica delle magliette più vendute, nei negozi NBA e sul sito ufficiale della Lega. Diffusa due volte all’anno, in aprile e in novembre, l’ultima dice che LeBron ormai campione di tutto è tornato in testa, quando sei mesi fa era invece al numero quattro dietro a Rose, Lin e Bryant. In questa classifica, che è para-ufficiale solo dal 2001 (Jordan un po’ di merchandising nel decennio precedente l’aveva spostato…), Kobe ha ‘vinto’ in sei semestri, più di chiunque altro. Venendo all’attualità, LBJ è davanti a Durant, Bryant, Anthony, Rose, Rondo, Wade, Griffin, Howard e Paul. Questa invece la classifica delle squadre: Knicks, Heat, Lakers, Bulls, Celtics, Thunder, Nets, Clippers, Spurs, Mavericks. Oltre al copia e incolla due considerazioni. La prima è sui giocatori, dove non ci sono vecchie glorie ‘amate dai tifosi’ ma campioni magari anche anziani (per la verità uno solo) ma sempre decisivi. La seconda è sulle squadre, dove un relativamente piccolo mercato come Oklahoma City è al sesto posto come merchandising incalzando citta come New York, Miami, Los Angeles, Chicago e Boston (tutte con squadre forti anche nel presente, fra l’altro). Una piccola lezione dello sport americano a chi pensa che Chievo e Catania non potranno mai competere con Juventus  e Inter per vaghi motivi ‘storici’. Ovviamente a Cialtronia la prima cosa copiata sono stati i posti courtside a peso d’oro (e non caso riempiti da figuranti a scrocco, altro che Jay Z), non l’equità competitiva almeno in prospettiva.

3. Mike D’Antoni ha parlato del momento Lakers in una intervista concessa a Ramona Shelbourne di Espn Los Angeles. Lavori in corso, anzi in corsissimo, con valutazione che potrà essere fatta solo con in campo Steve Nash, a 38 anni arrivato per vincere subito e non per lavorare in prospettiva, unita alla definizione del ruolo di Pau Gasol nel sistema dantoniano. Definizione che potrebbe fare rima con cessione, visto l’atteggiamento del catalano (consapevole che un D’Antoni sincero come ‘quattro’ vorrebbe uno come Artest) e il suo ormai frequente ‘panchinamento’ nelle fasi decisive delle partite. Ma la frase che ha generato titoli e discussioni è stata quella su New York, dove D’Antoni ha allenato dal 2008 fino all’esonero della scorsa stagione: “Non avrei mai dovuto andarci”. Non stava parlando di tattica, ma dell’assurdità (peraltro strapagata e liberamente sottoscritta da entrambe le parti) di fare basket per due stagioni con l’unico scopo di alzare le statistiche a gente con contratti di cui liberarsi in modo da presentarsi leggeri nell’estate 2010 e prendere LeBron e magari anche Bosh. Non è andata proprio così e i Knicks sono tornati ad essere una squadra piuttosto classica, costruita intorno a due stelle (ormai una): stanno facendo bene, ma non arriveranno da nessuna parte. Insomma, per certi aspetti quattro anni buttati via. E non solo da D’Antoni.

4. Da questa settimana daremo una cadenza settimanale alla nostra rubrica, al giovedì, per la buonissima ragione che gli articoli di Oscar Eleni escono martedì e sabato. Non che noi si sia paragonabili: lui è un giornalista, uno degli ultimi ad avere praticato sul serio (nel senso di viaggiare, vedere, conoscere, studiare, scrivere con senso critico) questa professione in ambito sportivo e a maggior ragione cestistico, noi pur avendo l’inutile tesserino solo maniaci di questo sport (come Fabrizio Provera, che segue l’ispirazione). Come nome della rubrica abbiamo un po’ alla Grignani scelto Destinazione Palalido, dal nome dello storico impianto milanese dove ci siamo formati culturalmente grazie a una squadra ormai defunta (ne esiste in C Regionale una sua discendente, gestita in maniera tristissima) da 32 anni, non per schiacciare il tasto della nostalgia ma proprio per il motivo opposto. Mentre scriviamo queste righe il Palalido è un cumulo di macerie, ottimisticamente nel futuro PalaArmani (dal nome di chi mette parte dei soldi) si tornerà a vedere pallacanestro dal settembre dell’anno prossimo. Vogliamo davvero crederci. Non si può guardare la NBA senza sapere chi siamo e da dove veniamo.

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