Da tornarci sempre

1 Luglio 2011 di Stefano Olivari

di Stefano Olivari
Non essere mai stati a Wimbledon è un delitto, considerando il tempo e i soldi persi correndo dietro a persone e progetti inutili. Ecco, fino a ieri però non ci eravamo mai stati, pur ritenendo il tennis uno degli ultimi sport ad essere definibile come tale. Non abbiamo visto la luce, perchè le accelerazioni della Kvitova e la cattiveria agonistica della Sharapova si notano benissimo anche in televisione, ma un ambiente meraviglioso sì. Saltare da un campo secondario all’altro, fra una vecchia gloria e un ragazzo che gloria non lo sarà forse mai, vale il viaggio. Anche perchè l’unica tifoseria che si comporta in maniera imbarazzante sono i parenti (e nemmeno tutti) dei giocatori. Scriviamo queste righe fra la prima e la seconda semifinale maschile, solo per fissare alcune impressioni a caldo.

1. E’ impressionante la percentuale di ragazzi inglesi che usa il Blackberry, in ogni dove (anche durante le partite) tossici di Messenger erano concentrati sul loro telefonino che in cialtronese dovremmo definire smartphone. Sembra che non esista altro telefono, c’è sì qualche iPhone ma è riservato a una nicchia ancora più cazzara rispetto alla corrispondente italiana. Parliamo di telefoni perché troviamo inconcepibile essere a Wimbledon e non guardare le partite.
2. Il merchandising è nettamente migliorato rispetto al passato, per disegni e qualità dei prodotti. Oltre che per la fedeltà agli originali. Non è un caso che fino a qualche anno fa gli asciugamani di Wimbledon non fossero in vendita e fossero quindi fra i trofei più ambiti per qualunque giocatore. Adesso è in vendita qualsiasi cosa, tranne forse (perlomeno non l’abbiamo vista) la splendida divisa degli arbitri e dei giudici di linea.
3. La particolare acustica del Centrale rende meno fastidiosi rispetto all’ascolto televisivo i rantoli di giocatori e giocatrici. Lì sembrano avere una logica diversa da quella della recita o del disturbo dell’avversario. Sembrano sofferenza, tensione, liberazione: quello che dovrebbero essere.
4. L’amico Marco Lombardo, vero artefice e mourinhano motivatore della nostra trasferta (alla fine abbiamo scoperto che lasciare il lavoro per un giorno non è difficile, soprattutto se è un lavoro che non ti piace più: ma cosa cazzo ce ne frega di Gasperini e Hamsik?), ha avvistato in giro per i campi funzionari della federazione italiana in viaggio di studio a caccia di idee per migliorare gli Internazionali d’Italia. Nostra traduzione: un viaggio a Londra pagato dalla FIT, perché la tradizione non si inventa. Così come la programmazione, visto che quella di Wimbledon avviene per cicli di 15 (quindici!) anni. Come dicevano gli inglesi di una volta, anche se forse è più nota la canzone dei Morcheeba, Rome wasn’t built in a day.
5. Detto questo, cosa bisogna fare per diventare il famoso quinto Slam di cui tanti straparlano e che Tiriac ha tentato senza successo di immpiantare a Madrid accontentandosi poi delle raccapalle-modelle? Il combined event partito quest’anno è già un buon inizio, il Foro Italico è bello, i giocatori vanno a Roma volentieri al di là del fatto che per un 1000 siano obbligati a farlo. E poi negli anni Settanta, quelli della grande depressione degli Australian Open, gli Internazionali d’Italia non erano molto lontani dall’essere un quarto Slam.
6. Tornando a Wimbledon, il biglietto per i campi secondari ha ovviamente grande senso la prima settimana ma anche la seconda non scherza. In attesa delle due semifinali vere siamo stati fagocitati dal fascino del doppio femminile per vecchie glorie. Diciamo vecchie, ma molte potrebbero ancora tranquillamente superare qualche turno nel torneo principale incontrando avversarie dal fisico leggero. Un po’ triste il il livello di Martinez (Conchita)-Tauziat contro Sukova-Temesvari, strepitose in un campo 3 con le tribune strapiene invece Lindsay Davenport e soprattutto Martina Hingis (31 anni, perchè non ci ripensa?) contro Magadalena Maleeva e Barbara Schett che molti forse conoscono più come intervistatrice di Eurosport.
7. Il Centrale è il Centrale, anche se il prezzo dei biglietti e la difficoltà nel reperirli creano un fastidioso effetto: metà dei presenti non è realmente interessata al tennis, come provano alcuni fastidiosi atteggiamenti che definiremmo da NBA a Miami: gente che si alza a metà partita, che parla ad alta voce, che mangia (inconcepibile, almeno nel tennis), che guarda l’orologio sbuffando. Sarà il pacchetto Wimbledon di qualche tour operator, saranno gli sponsor che danno biglietti a mazzi a managerini più interessati a una figa virtuale su Facebook che alla Sharapova dal vivo (tanto non gliela darà nessuna delle due, tanto vale godersi la Sharapova), saranno certe famiglie che vanno a Wimbledon con lo stesso spirito con cui andrebbero al British Museum o ai Kew Gardens, ma in metà dei presenti non c’era l’atteggiamento che ci aspettavamo. Andare a Messa non è obbligatorio, ma se ci vai non puoi mangiare le patatine e deridere il prete.
8. In metà del Centrale e in giro per i campi secondari ci sono però quelli veri, appassionati di tutto il mondo e inglesi che vedono Wimbledon come uno degli ultimi monumenti viventi (perché di morti ce ne sono tanti) dell’Inghilterra di una volta: quella tardo-coloniale, quella della cortesia (non una sola maschera maleducata, fra le tante da noi interpellate con quesiti epocali tipo ‘Per la fermata di Southfields mi conviene prendere il bus?’), quella del decoro che continuiamo a preferire allo sbracamento. Molte signore con i vestiti a fiorellini forse non seguono la stagione WTA della Azarenka a Kuala Lumpur o a Doha, ma conoscono il motivo per cui sono venute a Wimbledon. Le modalità del public ballot per i biglietti, poi, sono commoventi: su tutte l’invio della busta con scritto il proprio indirizzo di casa. Qual è l’ultima lettera ricevuta con un mittente diverso da Equitalia? Non ce lo ricordiamo.
9. Lontanissimi dalla tribuna stampa, fisicamente e psicologicamente, abbiamo notato che i posti per i giornalisti non televisivi sono davvero pochi: uno spazio da squadra di LegaPro. Ma abbiamo notato anche di peggio: in una giornata senza partite tecnicamente importanti su altri campi, quella tribunetta era mezza vuota. Ci è stato spiegato che la maggior parte degli inviati preferisce vedere le partite dai monitor della sala stampa, così è più vicina alla zona interviste ed è comunque più comoda oltre che con il bar più vicino. Poi ci si chiede perché i giornali mandano in giro pochi inviati. Per ribadire il punteggio basta il copincollatore web sottopagato.
10. Andremmo avanti all’infinito a parlare di Wimbledon, ma Nadal-Murray ci chiama e questo pezzo è già troppo lungo per i gusti web. Diciamo solo che ammazzeremo o ruberemo, per citare Rossella O’Hara, per tornarci ogni anno di quelli che ci rimangono da vivere.


Stefano Olivari, da Wimbledon
stefano@indiscreto.it

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