C’era una volta il Madrid

13 Febbraio 2009 di Pippo Russo

di Pippo Russo

“El Madrid es el Madrid” recita lo slogan che da sempre accompagna il Real. E dentro una formula d’apparente semplicità (che agli iconoclasti potrebbe ricordare quella da anni usata per il Festival di Sanremo) si concentra l’ethos del madridismo, che comanda la costante ricerca dell’eccellenza in campo e fuori. Essere il Real Madrid significa competere sempre e fino in fondo quale che sia il torneo in questione, aggiudicarsi i migliori calciatori in circolazione a livello mondiale, e giocare sempre un calcio offensivo. Noblesse oblige. Fu proprio questo ethos a costare nel dicembre 2005 il posto in panchina a Vanderlei Luxemburgo, l’allenatore brasiliano sciaguratamente piazzato sulla panchina “merengue” dall’allora “diretòr del fùtbol” Arrigo Sacchi. Per difendere l’uno a zero contro il Getafe al Bernabeu l’allenatore osò sostituire un attaccante con un centrocampista. Come se allenasse una provinciale qualsiasi. La contestazione che si scatenò ha pochi precedenti. Alla fine la vittoria venne condotta in porto, ma per il popolo madridista l’umiliazione fu insopportabile. “El Madrid es el Madrid”, e non si rintana a difesa del vantaggio minimo nemmeno in una finale di Champions. Due giorni dopo Luxemburgo lasciò il posto a Ramon Lopez Caro, e di certo quella serata diede un contributo rilevante a segnare le sorti elettorali del presidente uscente Florentino Perez nel duello contro Ramon Calderon. Ripensando a quell’episodio viene da chiedersi cosa sia rimasto di quell’ethos, e cosa mai sia oggi “el Madrid”. Accade infatti che il club ritenuto (a torto o a ragione) il più glorioso e potente del mondo attraversi un momento di decadenza dal quale nemmeno la sua immagine storica viene risparmiata. L’ultimo colpo, forse definitivo, l’ha dato uno dei giocatori arrivati nel corso della campagna di rafforzamento invernale: l’attaccante olandese Klaas-Jan Huntelaar, giunto dall’Ajax a Madrid il 4 dicembre in cambio di 27 milioni di euro. In altri tempi, per l’olandese, il trasferimento alla “Casa Blanca” sarebbe l’apice della carriera agonistica. Invece, come informava lunedì il quotidiano sportivo spagnolo “As”, dopo appena due mesi Huntelaar sarebbe già stufo del Real e mediterebbe di andarsene. E a dire il vero per l’olandese le ragioni d’insoddisfazione non mancano. Fin qui egli ha disputato una sola gara da titolare (Juande Ramos, sostituto di Bernd Schuster sulla panchina merengue, non lo vede proprio), ma ciò che più d’ogni altra cosa l’ha indisposto è l’esclusione a favore di Lassana Diarra (un mediano) dalla lista dei giocatori che prenderanno parte alla seconda fase di Champions League. I due giocatori avevano già giocato con le loro squadre (Ajax e Portsmouth) in coppa Uefa nel corso di questa stagione, e per i regolamenti della confederazione europea soltanto uno di loro poteva beneficiare di una deroga. Il tentativo madridista di forzare la mano sui regolamenti minacciando il ricorso al TAS di Losanna si è risolto in una figuraccia, e a quel punto a Juande Ramos è toccato scegliere. Scontentando Huntelaar. E tuttavia, per quanto l’olandese possa sentirsi umiliato, non va dimenticato che egli è giunto a Madrid lasciandosi alle spalle un Ajax fra i più tristi di sempre (terzo in campionato a 14 punti dall’Az Alkmaar), e che a 25 anni (giovane ma non più giovanissimo) nulla ha ancora dimostrato a livello internazionale. Un tempo, se uno così giungeva al Real si metteva a lavorare testa bassa per guadagnarsi la maglia del club più prestigioso del mondo, indipendentemente dai rovesci. Ma nei giorni in cui persino un Cassano afferma di preferire la Samp alla Casa Blanca, succede pure che un Huntelaar voglia andarsene dopo solo due mesi. Il Madrid non è più il Madrid, e chissà se tornerà mai a esserlo.
http://www.myspace.com/pipporusso
(per gentile concessione dell’autore, fonte: Il Riformista di mercoledì 11 febbraio 2009)
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