Calzettoni alla Sivori

23 Gennaio 2009 di Stefano Olivari

di Dario Spagnoli

Al rientro in Italia, andammo ad abitare al nr. 251 di via Nonantolana, nella prima periferia di Modena. Il rione non era dei più signorili, ma si stava bene lo stesso; la mia casa era circondata da prati verdi che, per noi bambini, rappresentavano un grande sfogo, fornendoci innumerevoli occasioni di gioco. La stessa cosa oggi sarebbe impossibile, visto che tutto quel verde ha ceduto il posto ad enormi palazzoni. Ho cominciato a tirare i primi calci, come tutti i bambini, nel campetto dell’oratorio di don Sergio Mantovani, passato poi agli onori della cronaca per essere diventato il cappellano dei piloti di Formula 1. Parrocchia di Santa Caterina alla Crocetta, gran cuore proletario della Modena del tempo. Era circa la metà degli anni ‘60 e tutti i santi giorni chiunque avesse voluto trovarmi, poteva venire a cercarmi, senza possibilità di errore, in quel campetto.
La mia prima divisa da calciatore me la regalò mio fratello, avevo poco meno di 9 anni: si trattò, inevitabilmente, della divisa della Juventus, perché lui sapeva che io impazzivo per Sivori. Ero infatti diventato juventino giocando con Roberto e Paolo, due bambini più grandi di me, nel cortile di casa; tutti e due avevano la maglietta bianconera e quando facevano le partitelle uno diceva:
«Io sono Sivori», e l’altro rispondeva:
«Io sono Charles».
Io, inconsciamente propendendo per Roberto, cominciai ad avere una grande ammirazione per il fuoriclasse argentino, che mi rimase nel tempo. Cercavo di copiarne i gesti e le movenze, come i calzettoni portati alle caviglie. Naturalmente, crescendo capii benissimo che non avevo le caratteristiche e soprattutto la qualità del grande Omar. Io ero gracilino, a quel tempo, e avevo molta paura dell’avversario, specialmente quando era più grande di me.
All’età di 10 anni entrai a fare parte di una squadra vera, con tanto di maglia ufficiale, tuta e partite vere; eravamo senz’altro i più scarsi del girone, prendevamo sempre delle sonore legnate, ma per me andava bene lo stesso. La squadra si chiamava Messori, nome che fino allora non avevo mai sentito nominare ma che mi diventò incredibilmente familiare, pur non dicendomi nulla. La divisa era: maglia verde con ampia striscia bianca orizzontale all’altezza del petto, calzoncini bianchi, calzettoni a piacere. Il dirigente-allenatore-tuttofare si chiamava Remo Ricci, un gran simpaticone, un amico più che altro, anche se era abbondantemente più grande di me. Ci si vedeva ogni giorno perché, oltre a essere vicini di casa, si finì col frequentare, con l’andare del tempo, lo stesso ritrovo, il glorioso bar Bettolo.
Durante il periodo estivo, terminate le scuole, il nostro passatempo era quello di andare a fare il bagno alla piscina comunale, ma i soldi non abbondavano e allora si cercava di escogitare qualche sistema per raggranellare le 200 lire che ci avrebbero permesso l’ingresso in piscina. Andavamo alle montagne di polvere nera, scarti di lavorazione che le fonderie vicino casa accumulavano, e lì in mezzo c’erano i pezzi di scarto dell’acciaio, la ghisa che noi raccattavamo e rivendevamo al solito rigattiere. Partivamo al mattino e fino a mezzogiorno ci immerdavamo di nero fino alla punta dei capelli, e quando trovavamo un pezzo grosso per noi era come aver trovato una pepita d’oro. Poi facevamo l’inventario del “bottino”, la stima e, al pomeriggio, appena avuti i soldi, via in piscina fino a sera, immersi in vasca.
All’incrocio tra via Nonantolana e via Crocetta teneva bottega il mitico barbiere Pippo, un signore di mezza età che agli occhi di noi ragazzini sembrava già vecchio. Era un accanito sostenitore juventino e avevamo anche avuto, io e lui, uno scontro a carattere sportivo perché all’epoca io ce l’avevo con Edmondo Fabbri, allenatore della nazionale, che aveva deciso di escludere gli oriundi. E questo avrebbe significato per me non veder più Sivori con la maglia azzurra. Lui diceva che era giusto, io invece sostenevo il contrario. Pippo era uno di quei barbieri vecchia scuola che era venuto su dalla gavetta, senza frequentare alcuna di quelle scuole professionali di taglio e senza nessun tipo di aggiornamento, e così tutte le volte che andavamo a tagliarci i capelli, ci votavamo a qualche santo, nella speranza che potesse riuscire a farci un buon taglio. Gli dicevamo: «Pippo, mi raccomando, mi faccia un taglio alla moda». E lui ti rispondeva alla maniera canonica: «A gh peins me’: a fagh un lavursinen muderen. Isamma, ona cosa giosta!». E immancabilmente si usciva fuori con il solito taglio. Pippo aveva anche un’altra particolarità. Quando qualcuno gli parlava, aveva l’abitudine di sottolineare il discorso del suo interlocutore con un caratteristico: «Ostia, boun boun!». Cosicché, qualsiasi cosa tu gli dicevi lui ti rispondeva con quell’intercalare. Si verificavano dialoghi del tipo: «Pippo, ho comperato una bicicletta nuova che è uno spettacolo». E lui: «Ostia, boun boun!». Oppure: «Pippo, ieri sono stato a fare un giro in montagna». E lui, di rimando: «Ostia, boun boun!». Non so se sia una leggenda metropolitana o sia accaduto veramente, fatto sta che un giorno un amico entro nel suo salone e, salutando mestamente, gli riferisce di essere di ritorno dal funerale di un suo amico. E lui, senza scomporsi: «Ostia, boun boun!» (2-continua)
Dario Spagnoli
(per gentile concessione dell’autore, fonte: La mia Akragas – Quando i pali erano quadrati). Chi fosse interessato all’opera completa è pregato di contattare la casa editrice (Il Fiorino) o direttamente l’autore:
dariospagnoli@libero.it.
‘La mia Akragas su Indiscreto’
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