Slittino francese, di Dario Spagnoli

29 Dicembre 2008 di Stefano Olivari

In questo racconto ho cercato di ricordare certi momenti della mia vita, particolari e particolarmente intensi per me, che ho trascorso ad Agrigento, città nella cui squadra di calcio ho militato. Non vorrei fosse inteso, questo, come un gesto di megalomania; è soltanto il riappropriarmi del diritto che, credo, ognuno di noi abbia, di dire qualcosa, di ricordare fasi ed episodi della propria vita, di raccontare se stesso. Sono stati anni bellissimi, che ricordo con tanto affetto e tanta nostalgia. Certo, non è un racconto paragonabile a quello di calciatori più illustri del sottoscritto, dal punto di vista calcistico, ma i sentimenti e le sensazioni vissute e provate sono autentiche e non le ritengo per nulla inferiori. Scrivere e raccontarmi ha rappresentato per me motivo di soddisfazione e di orgoglio. Sono felice di averlo fatto e mi ritengo soddisfatto di questo piccolo risultato.Spero soltanto di non annoiare nessuno.
Sono nato a Bergamo, città in cui mio nonno, presi armi e bagagli, ritenne di spostarsi, da Modena, insieme alla famiglia. Erano anni di magra, e questi spostamenti di intere famiglie, anche tra città del norditalia, non erano infrequenti. Successivamente, e inevitabilmente, la famiglia si allargò, e così, fra le brume orobiche e da madre orobica, nacqui io, il 30 Agosto del 1954. Appena gli fu possibile, mio padre rientrò a Modena e andammo ad abitare in Via dei Tintori, nel cuore della citta’ (sotto l’ombra della Ghirlandina) con tutti noi. Avevo due anni, per cui posso ritenermi modenese a tutti gli effetti.
Alla fine degli anni ’50 subito l’emigrazione: avevo 4 anni e la Francia fu la destinazione finale. Il viaggio è una delle poche cose che ricordo con chiarezza: lungo, interminabile, pieno di silenzi, molto simile a quello che oggi, con un termine abusato, si potrebbe definire il “viaggio della speranza”, verso l’ignoto. Sbarcammo, con le poche masserizie che ci potevano tornare utili nell’immediato e, per quanto mi riguardava, con un bagaglio pieno di interrogativi, in un paesino che si chiamava Sancy, la nostra terra promessa. Il posto, a conti fatti, si rivelò pessimo, come mi conferma ancor oggi mia madre. Aggravata, la sua bruttezza, dal fatto di essere terra di emigrazione; si trovava a una trentina di chilometri da Metz, ai confini col Belgio, e mio padre trovò un lavoro ancor peggiore, se possibile, del posto: faceva il minatore. Rimanemmo lì per quasi un anno: un anno enigmatico, di freddo e di lunghe giornate passate in casa, a guardare da dietro i vetri quelle strade troppo diritte e troppo grigie per essere vere. A quell’epoca io non andavo ancora a scuola, e da questo punto di vista, forse, era migliore la condizione di mio fratello che, frequentandola, aveva occasione di incontrare altri coetanei.
Le mie uscite si limitavano all’essere inviato, quotidianamente, a comprare il pane, le famose baguettes, che acquistavo dal boulanger vicino casa. Non tanto vicino, in quanto mi ero inventato un complesso giro dell’isolato a causa del fatto che, proprio al centro della strada ove era la panetteria, vi era una stalla, e io evitavo accuratamente i bovini dal giorno in cui, era successo poco tempo prima, giocando con un altro bambino in un prato, fui avvicinato alle spalle da un vitellino che mi sbuffò all’orecchio, lasciandomi letteralmente terrorizzato. E da allora, appunto, dovetti inventarmi questo giro lungo, che in verità mi affaticava abbastanza. Ma questa era oramai la situazione.
Un altro aneddoto che ho ben fisso in mente è, quando nel Natale del ’58 la mia nonna paterna venne a trovarci. Oltre alla gioia nel vedere un volto amico, in una terra di sconosciuti, in aggiunta mi regalò un cavalluccio a dondolo. Non so bene per quale motivo, ma dopo un po’ non ci giocavo più, lo accantonai, preferendo altri passatempi. Là l’inverno era rigido, nevicava spesso e i bambini francesi, ben più attrezzati di me e mio fratello, che con la neve ci andavano a nozze, possedevano degli slittini in legno bellissimi. Mio padre probabilmente soffriva del fatto che, per via della nostra situazione economica, non poteva permettersi di comprarcene uno ma, aguzzando l’ingegno, un giorno disfece il cavallo a dondolo e ne ricavò uno slittino. Rimase encomiabile, questo sforzo di mio padre; quanto allo slittino, alla prima discesa andò in mille pezzi e non se ne parlò più. (1-continua).
Dario Spagnoli
(per gentile concessione dell’autore, fonte: La mia Akragas – Quando i pali erano quadrati).
Chi fosse interessato all’opera completa è pregato di contattare la casa editrice (Il Fiorino) o direttamente l’autore: dariospagnoli@libero.it.
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