Calcio
Tutto qui?
Stefano Olivari 24/05/2010
di Stefano Olivari
Meglio il sabato del villaggio, sia pure globale, o la sazia malinconia della domenica sera fra avanzi del pranzo e dibattiti televisivi su un futuro che interessa ormai poco? L’interista sui quaranta anni, bambino con la Juventus di Boniperti, ragazzo con il Milan di Berlusconi e uomo (o giù di lì) con la Juventus di Moggi, pur con tutti gli asterischi del caso non dovrebbe avere in teoria dubbi.
Non fosse altro che per la libertà di dire, adesso che le gioca, che le supercoppe nel regno degli evasori fiscali valgono emotivamente poco più del trofeo Tim e che l’Intercontinentale-Coppa del Mondo per club è davvero sul piano tecnico quella che Mancini definiva Coppa del Nonno. Di dire anche che lo scudetto può essere perso con rimpianti e recriminazioni ma non vinto con colpi di fortuna, come può avvenire per la Champions League. Insomma, quella di Madrid è stata una vittoria che migliorerà il livello della discussione fra quell’80% degli italiani che si scannano per tre squadre: magari parleremo meno del passato, anche se non giureremmo che andrà così. Il resto è già stato stradetto, ma non mancheremo nei prossimi giorni di proporre le nostre ‘cover’ spacciandole per riletture o analisi. Per adesso ci limitiamo a qualche impressione personale, dopo una trasferta madrilena per la quale dobbiamo ringraziare soprattutto l’amico Marco (che non è Tronchetti Provera).
1. Il Bernabeu dimostra tutti suoi anni, all’interno non è meno fatiscente di tanti stadi italiani (fra cavi dell’elettricità a vista e vie di fuga da vecchio Heysel), ma grazie alla sua verticalità lo spettatore del quarto anello vede la partita meglio che nei posti più nobili di altri stadi top. Impossibile non pensare al Mondiale 1982, ormai replica scontata da collateral di giornali ma che rimane comunque il luogo dell’anima di una generazione. E non solo per motivi calcistici.
2. Roberto Gotta, che ha visto dal vivo non meno di 20 Super Bowl, nella notte aeroportuale osservava giustamente che il gigantismo Uefa-Champions quasi fa sembrare eventi di questo genere altro che calcio. E ogni anno si va sempre oltre, nel 2011 toccherà a Wembley il compito di stupire. Al di là del fatto che abbiamo seguito in maniera religiosa anche Porto-Monaco del 2004, noi a livello di grandi numeri non riusciamo ancora a percepire il calcio come ‘evento’ scisso dal tifo o almeno dalla passione. Vedendo in coda con il loro biglietto in mano turisti giapponesi o madrileni dall’aria morbida ci è venuta rabbia per chi è rimasto in Italia o in Germania e che avrebbe magari dato anni di vita per esserci.
3. La rivalità internazionale non potrà mai essere di intensità paragonabile a quella con il tuo dirimpettaio al paesello, con buona pace di chi sogna una Champions League strutturata come un campionato a sè stante con stagione regolare di una trentina di partite e poi play-off. Un male per l’audience televisiva, uscendo da quella della fase a eliminazione diretta, ma un bene per la civiltà. Una giornata a Madrid con 80mila persone che si ritrovavano negli stessi posti a fare le stesse cose (è il bello di essere turisti e non viaggiatori, del resto ci sentiamo sul piano culturale più vicini a Maurizio Mosca che a Paul Bowles) sarebbe potenzialmente pericolosissima, se le divisioni fossero dettate da qualcosa di diverso dal calcio (serbi e croati in tribuna riescono a far scoppiare tumulti anche nel tennis, per dire). Per fare un esempio baskettaro, in Champions siamo più vicini all’atteggiamento di un pubblico Nba che a quello di Panathinaikos-Olympiacos.
4. Imbarazzante il numero di disguidi, da parte italiana, per quanto riguarda i biglietti venduti alla gente normale. Secondi anelli diventati terzi o quarti, tagliandi scomparsi e poi ricomparsi con un apposito attestato rilasciato da un ufficetto Uefa dal lato opposto della città, alberghi prenotati in maniera sbagliata. Personalmente non ci è capitato nulla di male, la decina di ore in aeroporto si è superata con qualcosa di interessante da leggere, però la quantità di persone a cui qualcosa è andato storto quasi non si conta. Ribadiamo il concetto: bisognava privilegiare gli abbonati, senza passare dalla Jakala di turno, sorteggiando fra di loro i tagliandi disponibili. E solo dopo si sarebbero potute imbastire code terzomondiste stile via Massaua (tutto torna, vista la strada dedicata al colonialismo straccione): noi che siamo stati tre ore in fila solo per un autografo di Hansi Muller (negozio Foto Quelle di via Torino, anno di grazia 1982: citazione marchetta-free, quel posto non esiste più da secoli) possiamo capire benissimo, ma un essere umano no.
5. Composizione per classe di età del pubblico interista in trasferta. Soprattutto gente dai 40 ai 50 anni, facce di persone che hanno sentito diecimila volte i racconti della Grande Inter con Suarez che faceva lanci di 120 metri, Jair più veloce di Bolt, Mazzola imprendibile, eccetera, e che diecimila volta hanno pensato ‘Papà, smettila’. Non mancavano elementi più giovani, pochi invece gli anziani a cui si stava per rubare una specie di esclusiva. Una sensazione simile a quella provata da noi nel 2006, davanti a ragazzi che ci dicevano che quella alzata da Cannavaro era in fondo la stessa Coppa del Mondo del 1982 e che Lippi fosse stato più decisivo di Bearzot: due cose che pensiamo anche noi, fra l’altro.
6. La gente ha una scarsa opinione dei giornalisti, con gran parte di ragione. Fra i lettori di Gazzetta della vigilia e del giorno dopo (all’aeroporto di Barajas è arrivata verso le 4 del mattino) c’erano pochi lettori abituali, stando ai loro discorsi. La conferma ulteriore che le copie vengono spostate dalle vittorie più che dalle sconfitte: noi continuiamo a sorprenderci, perchè non capiamo cosa ci sia di interessante nelle celebrazioni, e continuiamo ad avere torto. Molto istruttivo lo stupore collettivo quando vicino al nostro posto è comparso Gianni Riotta: a tutti è sembrato un fenomeno sovrannaturale, degno di Voyager, che un giornalista per di più famoso abbia seguito una partita in un posto diverso dalla tribuna d’onore e addirittura pagando un biglietto. Vista la quantità di ‘ospiti’ delle tribune d’onore, da Cafonal di Pizzi e D’Agostino, possiamo dire che poche eccezioni confermano comunque la regola.
7. Rimandando a prossimi articoli i discorsi calcistici, chiudiamo dicendo che un gruppo bene identificabile di persone (interisti di una certa fascia di età e rimasti fondamentalmente ragazzi senza quel distacco dal calcio che dovrebbe essere normale per chi cresce: per la famiglia, la ‘posizione’, i weekend, le imprecisabili ‘cose serie’) ha avuto la sua Coppa dei Campioni e può adesso permettersi di dire ‘Tutto qui?’, ridendo della tronfietà mediatica altrui con qualche argomento in più rispetto al passato. Perchè le vittorie e la bacheca non sono tutto, ci sentiamo di dirlo oggi con molta più forza rispetto al passato: discorso scontato quando si vince rubando, un po’ meno quando si va sulla retorica non meno tifosa della ‘squadra che ha comunque meritato’. Il ragioniere che al giovedì sera sfida le intemperie e l’infarto rimane per noi più vero di Milito, Inzaghi, Del Piero, Totti, eccetera. Per non parlare di chi questi campioni li guarda, trasformando in un sogno tutte le miserie e i compromessi della vita quotidiana, o meglio ancora di chi tiene in vita lo sport di base (ben diverso dalle minors sostenute da riciclatori di soldi e trafficanti di cartellini) da volontario. Il sogno proibito sarebbe che questa settimana Moratti avviasse le pratiche per lo scioglimento dell’Inter, quello possibile che facesse un contratto di cinque anni a Zeman. Idee da interisti, forse. Il resto sono cose che avremmo voluto dire a una persona che non c’è più.
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