Quando guidava Dan Peterson

8 Luglio 2015 di Franco Casalini

Il coach ed io –  “E così sarai tu il mio assistente? Bene, non hai idea del culo che ti farai!”. E giù una risata sguaiata, come a dire: hai voluto la bicicletta? Pedala, adesso. Questo fu il mio primo impatto col coach. Stava per dirigere il primo allenamento con la sua nuova squadra, ancora in giugno, appena arrivato da Bologna e reduce dalla finale persa contro la Mobilgirgi. Era un arrivo voluto, ma non all’unanimità. Infatti, dopo l’ultimo risultato la stampa scriveva: “A Milano arriva un perdente”. Da Bologna in treno, naturalmente: perché la “mia macchinetta”, come chiamava la sua preistorica 500 bianca con le portiere controvento, l’avrebbe portata a Milano in settembre: partenza al mattino, arrivo nel pomeriggio inoltrato. Non credo potesse superare i 60 all’ora. Salvo poi lasciarla posteggiata davanti alla sede più o meno fino a fine stagione, senza mai, ovviamente, usarla. Dan non amava molto guidare, avrei capito solo in seguito il perché: forse sono stato l’unico testimone oculare della sua abilità al volante. Qualche tempo dopo, saremmo andati a Treviso a visionare la squadra che dovevamo incontrare. Treno fino a Venezia, quindi macchina a noleggio in Piazza Roma. Al momento del ritiro dell’automobile, non so per quale impulso, mentre sto per infilare la chiave, il coach mi fa: “Lascia Franco, guido io”. E via a 200 all’ora, senza pensare né a incroci, né a paesi, né soprattutto a scalare le marce. Arrivammo a Treviso in 15 minuti, circa. All’ingresso del palazzetto “Le Piscine” (non c’era ancora il Palaverde), il malcapitato addetto ebbe la pessima idea di fermarci. Eravamo senza biglietto. Credo se lo sogni ancora adesso cosa gli disse il coach. Resta il fatto che, non so perché, in quella occasione, dei giochi di Treviso non capii nulla…Che sia stato il viaggio in auto? Mah…

Lo stile di Faina – Torniamo a quel primo allenamento, alla presenza del suo predecessore Filippo Faina. Precisazione doverosa. Non si erano mai visti né prima, né, credo, dopo: signori come Pippo ne nascono uno ogni 100 anni! Primo impatto coi ragazzi, quasi tutti giovani: Boselli, Gallinari, Friz ed altri juniores più, forse, Ferracini e il povero Borlenghi, breve presentazione, mai amato i lunghi discorsi, poi via coi suoi esercizietti. “MAI!, PALLA!, TUFFI!, STARE GIÚ!, MANI FORTI!, MANI VELOCI!, AVVICINARSI, RIMBALZO STRANO, ETC”. Tutta roba di reattività, agonismo, carattere, ad altissimo ritmo: mai visto, né immaginato, niente di simile. In quella prima occasione fu lui a comandare la trafila, ed eseguire, con quasi tutti gli esercizi che prevedevano il lancio del pallone da parte del coach. Alla fine disse a me e Guglielmo Roggiani (il primo anno eravamo in due, ad assisterlo, ma al momento della frase di cui sopra Guglielmo non era ancora arrivato in palestra): “Avete visto? Bene, ricordatevelo, perché da settembre sarete voi a fare l’allenamento, io starò in mezzo al campo”. Altra novità assoluta, per l’Italia. Non contatele, saranno un’infinità. Cominciavo a capire cosa intendesse.

Come il Wisconsin – L’indomani vado a prelevarlo all’hotel Rosa, dietro piazza Fontana, a due passi dal Duomo, per portarlo alla Malpensa. Lo aspetto in macchina, esattamente davanti all’ingresso (cosa che oggi appare impossibile, vero?), ma Dan non arriva. Cominciamo bene, penso fra me e me. Intanto esce una bellissima ragazza ed eccolo arrivare dietro di lei.  “Ciao Franco, scusa il ritardo – si giustifica – stavo prendendo informazioni su quella ragazza”. “Ehi! – le urla a squarciagola, in mezzo al traffico del mattino – torno a settembre, ok? Adesso andiamo. Ma qui è come il Wisconsin!”. Fu l’unico commento, per via degli alberi prima dell’aeroporto. A settembre!

Occhi dietro la schiena – A dire il vero, mi risultava che lui voleva portarsi a Milano il suo assistente di fiducia, John McMillen. Fosse vero o no, credo comunque sia stato Cappellari ad insistere perché si avvalesse di me e Roggiani. E immagino che lui abbia accettato, senza credo conoscerci, anche se oramai avevamo entrambi una certo passato professionale, sia pure a livello giovanile. Magari avrà anche cercato di insistere, ma una volta accettato eravamo diventati di diritto i “suoi” assistenti, avrebbe in seguito difeso in tutti i modi il suo “staff tecnico”. Anche quando, di lì a qualche mese, avrebbe avuto motivo di darci un bel calcio nel sedere. Sia io che Guglielmo, all’inizio, gli davamo rispettosamente del lei, come succedeva con Rubini e tutti i grandi del basket con cui avevamo a che fare. Il che non ci impediva, beata gioventù, di fargli le smorfie, esattamente come con Rubini, quando lo mettevamo in mezzo. Durante i colloqui a tre, quello a cui lui dava le spalle gli faceva, appunto, le smorfie, mentre l’altro teneva il discorso. La sfida era, per colui che gli stava di fronte, riuscire a restare serio. Evidentemente avevamo acquisito una certa padronanza, dal momento che non si era mai accorto di nulla. O almeno così sembrava.  Evitate commenti, prego: eravamo giovani ed entusiasti!  Alla stazione di Venezia, verso dicembre o gennaio di quella prima stagione, ci decidiamo: che dici, gli chiediamo di dargli del tu? Sarebbe così comodo! Senza pensare che, per un americano, non esiste alcuna differenza, fra lei e tu. E sia, andiamo.  “Scusi, coach, vorremmo chiederle una cosa: potremmo darle del tu, anziché del lei. Sa, è per via della velocità di comunicazione, anche in partita, ne saremmo facilitati, etc., etc.”. “Così, vorreste darmi del tu – replicò – a parte il fatto che non mi interessa niente, perché non fa differenza per me. Ma mi venite a chiedere una cosa del genere dopo che sono mesi che mi fate le “focacce” dietro la schiena? Va bene, non c’è problema”. Dopo il terrore iniziale (ma chi è, un mago?), ci guardammo negli occhi, io e Guglielmo, e ci vergognammo come educande. Sbocciò così la definitiva, imperitura ammirazione per quel piccolo, grande uomo.

Essere dei suoi – Essere dei “suoi” significava tante cose, dalle piccole alle grandi. Primo, se c’è da discutere, io sto dalla tua parte, a prescindere. Una volta, di ritorno da un allenamento, mentre guido, lui legge il giornale, completamente assorto nella lettura.  Ad un tratto, come capita ogni tanto, ebbi una discussione con altro automobilista, col quale cominciai a berciare ad alta voce. Senza nemmeno capire cosa fosse successo, alzò gli occhi dal giornale ed iniziò ad insultare il povero pilota, dal quale ci separammo ben presto. Appena finita la litigata, di quelle fortunatamente solo verbali, riprese tranquillamente la lettura, senza ulteriori commenti. Nemmeno a chiedermi cosa fosse successo. Salvo, al solito, sulle ragazze: memorabile il viaggio del 28 novembre 1978: il miglior viaggio dell’anno. “Avvistate sei fighe! Bravo Franco!”. Bravo???  (1 – continua)

Estratto del libro ‘E via… verso una nuova avventura! 1978-1990: la squadra della nostra vita’, di Franco Casalini con Mino Taveri (prefazione di Dino Meneghin, postfazione di Mike D’Antoni) – Editore Indiscreto, 2011. In vendita a 4,99 euro in versione eBook per Kindle di Amazon, Kobo di Mondadori, iPad e qualsiasi tipo di eReader andando sulla piattaforma BookRepublic. In vendita anche in versione cartacea a 19 euro presso Amazon, Hoepli e tante altre librerie italiane. Distributore in esclusiva: Distribook srl

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