Cinema

Mi chiamo Francesco Totti e sono meglio del mio film

Stefano Olivari 19/11/2020

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Mi chiamo Francesco Totti, visto l’altra sera su Sky, è un brutto film ma tutti ne parlano bene, quindi forse è un bel film che non abbiamo capito: giudizi sempre soggettivi. Quello di Alex Infascelli è di sicuro un documentario che ha proprio Totti come voce narrante e come base il libro Un capitano scritto da Paolo Condò, mescolando immagini già viste a filmati amatoriali della famiglia Totti: insomma, buonissime premesse. Peccato che il film sia noioso e non regga il confronto con un qualsiasi I signori del calcio di Sky.

Il problema è che al di là di quello che tutti sanno di Totti non c’è alcuna idea: Mi chiamo Francesco Totti è un semplice racconto cronologico della carriera del campione, dalle prime partitelle con i compagni delle elementari fino allo scudetto con la Roma e alla vittoria nel Mondiale 2006, in cui la grande impresa fu quella di esserci, a pochi mesi da un grave infortunio. Un racconto con quasi nessun cattivo (se non Carlos Bianchi e in parte Spalletti, al quale comunque riconosce di essergli stato vicino in momenti difficili) e totalmente privo di pathos, oltre che di molti episodi decisivi nella costruzione di Totti come personaggio.

Fra questi l’incontro con Maurizio Costanzo, vero artefice della trasformazione da stereotipo del calciatore ignorante (cosa che Totti non è) al personaggio pop autoironico (non è nemmeno questo, e i suoi sostenitori ancor meno di lui come dimostrano le minacce a chi lo imitava) di oggi. Si rimane su un banale racconto dell’amore della gente, che qualunque bandiera di una squadra, dalle Far Oer al Senegal, potrebbe spiegare, e su una sfilata di personaggi che rimangono tutti in superficie: riesce ad essere noiosa perfino la parte su Cassano, con il quale per un certo periodo fece coppia fissa in campo e nelle notti romane.

A un racconto in prima persona non si può ovviamente chiedere di essere autocritico, ma di essere emozionante sì. Forse dietro a questo progetto c’erano troppe teste, basta vedere l’elenco di chi ci ha messo soldi: prodotto da Lorenzo Mieli (figlio dell’ex direttore del Corriere della Sera, Paolo), Mario Gianani Virginia Valsecchi (figlia del produttore Pietro), dal gruppo Fremantle, in collaborazione con Rai Cinema, Sky, Amazon Prime Video e qualcuno che magari dimentichiamo, per sua natura è un film trasversale che non doveva scontentare nessuno. Tanta gente coinvolta, con tutte le relazioni che questa gente ha nei vari ambienti mediatici, significa critiche positive a prescindere. Funziona così e non bisogna stupirsi. Però a noi cosa frega delle terrazze romane?

Un’opera veltroniana, viene da dire (fra l’altro la figlia di Veltroni è produttore esecutivo del film), che tiene ingiustamente a freno la parte più vera di Totti e di qualunque campione, cioè l’autostima a livello Ibrahimovic, smisurata. Che spunta qua e là, fra i testi scritti da chi ha studiato più di Totti ma non ha esaltato le folle come lui: i compagni che si scansano quando c’è da tirare il rigore contro l’Australia, i difensori come birilli, il Real Madrid che gli avrebbe fatto ponti d’oro, eccetera. Sfruttata il minimo la vera caratteristica che rende Totti superiore: essere diventato grande nella sua città e nella sua squadra. Il valore non è averlo fatto nella Roma, che per uno spettatore non romanista vale l’Arsenal o il Siviglia, ma averlo fatto a casa propria.

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