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Il paradosso di Datome

Stefano Olivari 10/07/2013

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Gigi Datome ai Detroit Pistons con un biennale da 3,5 milioni di dollari totali potrebbe far pensare, al netto del giornalismo patriottico, che nella NBA di oggi le barriere all’entrata siano molto più basse di anche solo una decina di anni fa. Premesso che essere utilizzato come tiratore in uscita saltuaria dalla panchina in una squadra con poche ambizioni (ma non comunque da tanking, cioè da borlottismo in chiave draft, se no non avrebbe ingaggiato Josh Smith) è diverso che essere un giocatore importante in realtà costrette a vincere (Bargnani ai Knicks, più ancora di Belinelli agli Spurs), questa operazione in ottica americana dimostra che il marketing non è necessariamente in contrasto con i valori tecnici. Datome con un ruolo ben preciso nella NBA ci può stare, ma come del resto mille giocatori da summer league: in più lui è bianco ed italiano, due asset che al di là dell’ipocrisia sono importanti, e nel 20% circa di ‘international players’ della lega sulla carta non sfigura. Anche se molti dei suoi movimenti, il fade away su tutti, sembrano difficili contro gente fisicata da NBA. E poi, se costruisce pochi tiri dal palleggio in serie A come potrà farlo a un livello più alto? Da una prospettiva europea e italiana questa scelta di Datome significa che anche per giocatori forti come lui gli sbocchi in Europa sono ormai pochissimi. Ed in Italia, a un certo livello di ingaggio, solo uno. Non sono quindi più possibili, nemmeno volendo, una carriera alla Bodiroga o un rifiuto ideologico-etnico alla Danilovic. Il paradosso è quindi che un Datome nel 2013 ha più possibilità nella NBA, al quintuplo dell’ingaggio italiano, che a casa sua. Per la serie: non ci sono più i patron di una volta.

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