Vasco Rossi: il supervissuto

11 Ottobre 2023 di Stefano Olivari

La docuserie autorizzata dal grande personaggio oggetto della docuserie stessa è ormai un grande e palloso classico di Netflix e di un po’ tutta la televisione internazionale. Vasco Rossi: il supervissuto rientra in questo schema delle piattaforme che permette di attirare i fan che vogliono il monumento e i curiosi che si accontentano di un po’ di gossip familiare, ma soprattutto permette di evitare querele ed anche di farsi venire un’idea. Nelle cinque puntate, decisamente troppe, con la regia di Pepsy Romanoff, c’è quindi Vasco che racconta il Vasco condiviso, non soltanto quello musicale, sconosciuto oltre Chiasso al di là di qualche concerto con spettatori italiani o legati in qualche modo all’Italia.

La parte più efficace è quella sugli inizi, da deejay di una radio fondata da lui stesso, Punto Radio (periodo raccontato in uno dei migliori libri prodotti da Indiscreto, Alla ricerca del Vasco perduto di Glezos), ed aspirante cantante: un vero outsider, però grande autore e con una presenza scenica notevole, che lo ha sempre reso non imitabile se non in forma di parodia. Nessun marketing ha imposto Vasco Rossi, che fenomeno commerciale da concertone, lontano dal maledettismo (in parte costruito anche quello) dei primi anni Ottanta, è diventato a successo già ottenuto. Senza far parte di alcun giro romano, milanese e nemmeno bolognese, al di là dell’amicizia con Gaetano Curreri e dell’avere studiato e vissuto a Bologna.

Vasco Rossi da Zocca è diventato Vasco Rossi senza partecipare a manifestazioni di beneficenza ostentata, a nazionali cantanti, a duetti, a pubblicità, ad eventi in cui il protagonista non fosse lui. L’unica vera rockstar, ma potremmo dire anche popstar, italiana è Vasco Rossi: come i Måneskin ma durando 40 anni ed intercettando ogni tipo di pubblico. In altre parole Vasco ci sembra uno vero, anche nelle sue parti più costruite. Umanamente simpatico e artisticamente morto, ma nell’era del dominio del live, con la gente che solo lì tira fuori i soldi veri, non se ne è accorto nessuno ed in fondo a nessuno importa.

Fra le interviste di Vasco Rossi: il supervissuto in mezzo a tanta noia e già sentito interessanti quelle alla moglie Laura Schmidt, l’unica ad andare oltre il monumento che Vasco sta erigendo a sé stesso, con quel celodurismo da concertone, da Modena Park in giù, che piace a milioni di persone e quindi ha ragione di essere. Efficace il  racconto di Vasco della sua depressione, senza andare sui massimi sistemi, così come quello della morte di Massimo Riva per eroina e altro. Fra le tante cose colpiscono la memoria, soprattutto per gli sgarbi subiti, della rockstar ed anche una notevole durezza nel trattare i suoi collaboratori, dai musicisti ai tecnici, amici ma fino a un certo punto, come è logico che sia perché tutti esistono soltanto perché esiste Vasco. Soltanto accennati i litigi e le rappacificazioni con Guido Elmi, il suo produttore storico, e con Maurizio Solieri, fra i vari chitarristi di Vasco è IL chitarrista di Vasco, con tutto il rispetto per Stef Burns, anche se ora non lo è più da almeno dieci anni.

In definitiva una docuserie per fan o ex fan ben girata ma decisamente noiosa, un festival di lacune (due figli su tre non ci sono) e di omissioni (i suoi rapporti pessimi con molti cantanti inseriti nel giro, che giustamente disprezza), dove un Vasco molto controllato usa il bilancino per dare qualcosa ai fan, qualcosa a chi gli chiede di parlare contro la droga (fra le tante sostanze usate l’eroina non c’è mai stata e il suo essere in vita a 73 anni lo dimostra), qualcosa anche ai suoi pochi hater visto che non nasconde le parti sgradevoli del suo carattere. Inevitabilmente qualcuno vedrà in queste 5 ore una sorta di testamento di Vasco e forse l’obbiettivo è stato davvero stato questo. Più rock il testamento di Berlusconi, due righe scritte con il culo, di quello della più grande rockstar italiana. Alla quale ora manca soltanto la fiction su Rai 1.

stefano@indiscreto.net

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