Basket

Quando i posti di lavoro sono troppi

Stefano Olivari 03/01/2012

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di Piero Parisini
Carissimo Oscar (Eleni, ndr), ti rompo perché sei l’unico che conosco che mantiene aperto un canale di comunicazione con il basket ufficiale di casa nostra. Sì, voglio influenzare i tuoi scritti. Non so se te ne sei accorto, ma ogni tanto e da un po’ di tempo sempre più spesso, in interviste a importanti protagonisti del nostro basket si leggono proposte di drastici ridimensionamenti all’ordinamento dei nostri campionati al fine di superare il grave stato di crisi economica e tecnica della nostra pallacanestro. Be’, ben arrivati. Li aspetto da una decina d’anni. Lo può testimoniare chi mi conosce e condivide le mie pene cestistiche sopportando le mie continue, noiose, paternali volte a cercare di convincere il malcapitato di turno che era, non è, urgente, assolutamente non rimandabile, rivoluzionare il sistema campionati per cercare di salvare il salvabile di questa da me troppo amata pallacanestro nostrana. Rovistando fra le mie carte, ho trovato anche questo reperto e cioè un mio articolo pubblicato sui Giganti del Basket del 10/03/1992 nella rubrica “Cause perse” (sic!). Mi vien da dire, anche se è tardi, leggete e meditate, ma soprattutto chi deve e può, faccia o si tolga dai maroni.

UN NUOVO ORDINAMENTO PER I CAMPIONATI

In genere, quelli del basket che hanno l’occasione di incrociarmi mi trattano con lo stesso modo che si usa con chi vive in un mondo tutto suo, fantastico; sapete, quei tipi simpatici che fanno tanta tenerezza. Ecco proprio come uno di loro. E io, allora, me ne approfitto sapendo che al massimo, come rimprovero, mi daranno, sorridendo, una affettuosa pacca sulla spalla “Sempre lo stesso, eh?”. Tutti parlano di formule di campionato, be’ lo faccio anch’io, libero di dire quello che mi passa per la testa. L’organizzazione di un campionato sta ad uno sport come un sistema economico sta ad una collettività nazionale, nel senso che le conseguenze socio-economiche per il sistema al quale si applica dipendono dal modello scelto. Se scegli il collettivismo spinto avrai come risultato teorico il benessere per tutti, ma in pratica, fin che dura, solo la sopravvivenza per quasi tutti. Se scegli la strada delle più dure regole del mercato con l’obiettivo, altrettanto teorico, di creare benessere al più grande numero possibile di persone, correrai il serio pericolo di avere in poco tempo alcuni straricchi, pochi benestanti e moltissimi poveri in canna. Raggiungere il giusto equilibrio è una gara durissima. L’ideale sarebbe poter mutare continuamente modello. Ma quello che non è praticabile in un grande sistema, lo può essere in uno piccolo come quello di uno sport.
E veniamo al sodo: il problema più grosso che ha il basket è lo squilibrio fra ricavi certamente interessanti e costi saliti ad un livello ormai insopportabile. Sono convinto che questa situazione sia quasi unicamente imputabile al fatto che la parte più importante del sistema, i giocatori, ha acquisito nel tempo uno sproporzionato potere contrattuale con l’effetto di indurre altri parti dello stesso sistema ad elevare, a loro volta, i tetti dei loro costi. Ma come è avvenuto tutto questo? Il fatto è che, a fronte di una produzione “cento” di nuovi giocatori, i “posti di lavoro” da occupare annualmente sono via a via decuplicati. Se diamo una occhiata all’attuale sistema di campionati (dalla “A1” alla “C” e forse alla “D”) ci accorgiamo che ogni anno il basket è costretto ad offrire oltre duemila compensi ad un mercato che non dà. Con quali conseguenze? Che il giocatore, come patrimonio, vale sempre di più ed è a sua volta in grado di spuntare sempre maggiori livelli retributivi.
Invertire la rotta? Ci provo: un primo atto è quello di ridurre ad un quarto i posti di lavoro. Solo tre campionati nazionali: “A” e “B” con 16 squadre ciascuna e una “C” a 32 squadre: dalla “C” non si retrocede e non si entra se non acquistandone i diritti. Solo 640 posti di lavoro con la qualifica di giocatore consentiranno alle 64 Società di scegliere il meglio al prezzo più conveniente. Ma non basta: revisione del vincolo con grande libertà di assumere giocatori comunitari e non. Come giocarli questi campionati? La “A” e la “B” più o meno con la stessa formula di oggi per “A1” e “A2”. La “C” la vedrei organizzata su 4 gironi da 8 squadre: dopo la prima fase all’italiana, 16 proseguono fino a selezionarne 4 per la promozione e le altre smettono, così pagheranno i giocatori per quello che hanno dato e nulla più. Altra questione basilare: è vietato eliminare lo scudetto dei poveri e cioè la retrocessione, anzi più squadre giocano per questo obiettivo, meglio è. Non ci credete? Andate a guardarvi i record di incassi degli ultimi 10 anni del massimo campionato. Il 60% delle squadre minori hanno realizzato il miglior incasso della loro storia in gare contro avversarie dirette per i posti in classifica; il 25 % in occasione di derby cittadini o regionali e solo il 15% ospitando una cosiddetta grande.
Ma sono particolari: l’importante è dividere ciò che il movimento può ragionevolmente mantenere a livello professionistico dal resto che potrà organizzarsi su base provinciale e regionale e basta. La mia è una rivoluzione con tanto di morti e feriti, ma a tempo: è una soluzione per un certo periodo e basta. Ecco, la mia soluzione vuole rendere meno criminogeno il nostro sistema per fargli riprendere fiato e per prepararlo eventualmente, fra altri vent’anni, ad un’altra rivoluzione. Tengo pronta la spalla per gli amici, ma vi prego, pacche affettuose, non botte. 

Piero Parisini

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