Calcio

Piccola patria

Stefano Olivari 23/06/2009

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Senza scomodare il professor Sartori, che peraltro da anni scrive quasi solo del cosiddetto Porcellum, qual è il sistema elettorale che offre il massimo della rappresentatitività? Semplice: un proporzionale assoluto, in cui ognuno possa votare per se stesso. Una cosa tipo le ‘sedie’ di cui parlava Gheddafi, o perlomeno il suo imitatore che qualche giorno fa ha allietato Roma. Un pensiero profondissimo che ci è arrivato in testa ieri sera leggendo dell’esistenza della ‘Viva World Cup’, semiclandestino Mondiale ‘dei popoli’ cominciato a Novara. In campo Padania (campione in carica dopo il trionfo del 2008 in Lapponia), Occitania, Provenza, Kurdistan, Gozo: realtà che potrebbero proporre squadre migliori di almeno metà delle partecipanti alla qualificazioni mondiali, da San Marino a Vanuatu. E allora? Allora il concetto stesso di appartenenza non è qualcosa di fisso ed immutabile nei secoli, se spinto da forti motivazioni il ‘troppo piccolo’ ha lo stesso valore di Francia o Inghilterra. Più che di queste righe sgangherate consigliamo la lettura del libro di Simon Martin, ‘Calcio e fascismo’: non la solita sbobba sulle connessioni fra calcio e politica ma un’interessante tesi che parte dal ruolo che ebbero gli stadi di Firenze e Bologna nella propaganda dell’epoca. Proponiamo il nostro Bignami: Mussolini sulle prime era convinto che il calcio avrebbe contribuito a rafforzare i sentimenti nazionalistici e per questo ispirò la costruzione di quelli che per l’epoca erano mega-impianti, ma la situazione gli sfuggì presto di mano. A Firenze e Bologna, ma non solo, il calcio portò all’esaltazione del proprio campanile più che ad un confronto sportivo che avesse come obbiettivo la costruzione di un italiano nuovo. L’italiano era rimasto vecchio, ed un gioco basato su furbizia e rapporti di potere sembrava fatto apposta per renderlo vecchissimo.

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