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Parole che suonano: intervista a Massimo Priviero
Paolo Morati 13/06/2014
Di recente, mentre nel corso di una lunga serata a discorrere di rock (qualsiasi cosa questo termine significhi) in Italia si sprecavano i confronti tra Vasco Rossi e Ligabue… fortunatamente una lampadina si è accesa facendoci esclamare: “Non si può non citare Massimo Priviero…”. Personaggio salito alla ribalta nel 1988 e che, dopo un paio di album di successo, ha seguito un percorso personale e indipendente mantenendo un deciso seguito al di fuori del cosiddetto mainstream.
Da lì l’idea di intervistarlo e parlarne, con la nostra consueta voglia (o almeno tentiamo) di puntare liberamente i riflettori dove ci porta il cuore. La preparazione di queste domande è stata preceduta dall’ascolto del bellissimo album Ali di libertà (il suo tredicesimo) pubblicato lo scorso autunno. Un disco corposo e poderoso, con venature folk, dominato non solo da chitarre, piano, ritmiche e violino, ma anche da un sound ricco e vero, cantato con passione drammatica e quella rabbia positiva e spirituale (splendida l’invocazione di Madre proteggi) che ti prende lo stomaco al primo ascolto e imprime una spinta decisiva per andare avanti.
Canzoni come Il mare, Libera terra (in due capitoli), Occhi di bambino o La casa di mio padre, tra vette di poesia, liriche e melodie, e rimbalzi ritmici fanno bene ai nervi e al morale, per chi non è disposto ad arrendersi alla vita mai. Qui di seguito le risposte di Massimo Priviero, e le sue opinioni schiette, senza filtri, sul mondo che ci circonda tra vita e musica.
Cominciamo con una domanda banale e scontata… qual è la tua definizione di rock?
Ho perso da tempo la definizione al riguardo. Credo abbia senso parlare per lo più di musica d’autore. Se preferisci, chiamalo rock d’autore… ma anche in quel caso faccio a fatica a darti una definizione oggi.
Partendo da questa definizione vorrei risalire ai tuoi inizi. Che tipo di ragazzo sei stato, quando e come hai cominciato a suonare e come sei arrivato a diventare un professionista e a firmare il primo contratto discografico?
Solitario, vagabondante, pieno di vita e di sogni da realizzare. Il primo era quello di vivere della mia musica e, quindi, quel sogno è realizzato da 26 anni ormai. Semplicemente contattai più o meno trenta anni fa il direttore artistico dell’epoca alla Warner che mi aprì la sua porta. Niente di più niente di meno.
All’epoca (siamo nel 1988) sei stato lanciato come ‘il futuro del rock italiano’, con il singolo San Valentino e l’album omonimo. Il video girava in televisione e le radio ti trasmettevano con buona frequenza, a supporto di una definizione sicuramente impegnativa da portare sulle spalle. Quanto ha pesato questa etichetta sul proseguimento della tua carriera?
Se è per questo quel singolo fu una hit di tutte le radio etc etc… i primi due album scalarono classifiche… ma è stato più bello tornare nelle stesse classifiche con Rolling Live qualche anno fa, senza network né televisioni. L’ etichetta non ha pesato se non nella testa di qualche pennivendolo ansioso di misurare il successo che hai e felice se sei in difficoltà a tirarti qualche badilata addosso. Ma questa è la vita. E questa gente non mi ha sfiorato né mi sfiora. Ho altri parametri d’esistenza.
Il tuo secondo disco, Nessuna resa mai, fu prodotto da Little Steven. Che ricordi hai di quel periodo, quanto era conforme con il tuo intendere la musica e com’è proseguita poi la tua storia con gli album successivi, indipendenti, che hanno visto un’alternarsi di temi ma anche una evoluzione e ricerca musicale sempre più profonda?
Il ricordo di Steve resta splendido, musicalmente e umanamente. Essere indipendente e libero è una precisa scelta di vita. È anche chiaro che c’è evoluzione e approfondimento di tematiche musicali e poetiche. In più non puoi far finta di avere 25 anni se ne hai 50, lascio questo mestiere a chi decide di farlo, spesso ingannando se stessi prima che il mondo, in cambio di qualche luce in più.
Quanto gli studi (sei laureato in Storia contemporanea) hanno influenzato il tuo approccio alla ricerca sui testi e le ambientazioni delle tue storie, oltre che le iniziative parallele che porti avanti? Puoi raccontarci qualcosa di più in tal senso?
Molto. Ho interesse e approccio a quel che accade assai legato ai miei studi storici. E considero la memoria migliore un patrimonio irrinunciabile. Insieme alla difesa di certi particolari valori.
L’anno scorso Ali di libertà è stato votato come miglior album italiano dai lettori di Buscadero. Un bel riconoscimento che dimostra come ci possa ancora essere spazio per far emergere la propria musica al di fuori dei canali tradizionali di esposizione mediatica. Come è cambiato oggi il modo di suonare e proporsi rispetto ai tuoi esordi ed esiste ancora la cosiddetta gavetta?
È la seconda volta che accade. Ogni tanto in questi anni mi han dato dei premi, anche se odio i concorsi e quel che ci va insieme. Questo mi piace perché viene dai lettori innanzitutto. E perché è pulito, oltre a venire da una rivista che non ha mai preso soldi di finanziamento più o meno mafioso dalla oscena legge sull’editoria che esiste in Italia.
Quali sono i temi che hai voluto mettere al centro con queste nuove canzoni e come si ricollegano alle tue esperienze e a quelli dei tuoi album precedenti?
La forza di chi crede nella propria esistenza. La condivisione di un viaggio e di pezzi di vita. Lo scambio di energia che esiste tra me e la gente che mi segue e viene ai miei concerti. La malinconia trasformata in ragioni per andare avanti. L’idea che fare musica in un certo modo vuol dire anche stare al mondo in un certo modo. Il resto che ci troverai preferisco che lo trovi da te.
Nel brano Occhi di bambino, uno dei più coinvolgenti del disco, chiedi con forza la verità. Una parola importante che fa rima con libertà. Cosa intendi per verità e… libertà?
È la naturale aspirazione di un essere pensante. L’ansia di conoscere le ragioni della tua esistenza e la tensione verso un qualcosa che val la pena di inseguire. Qualcosa che vale. Chiaro che la ricerca di una verità presuppone che tu sia prima di tutto un uomo libero. Per il massimo che questo mondo ti consente.
Passiamo ai suoni, per un album che appare piuttosto corposo e pieno. In genere lavori prima sulle musiche o sui testi e nel caso particolare di Ali di libertà qual è stato l’approccio seguito?
Da sempre sono processi che camminano insieme. Ma per lo più parto da una melodia che ho in testa su cui abbozzo un primo testo. A volte ne scrivo altri alternativi. Mi è sempre sembrato orrendo il pensiero di scrivere un testo per poi musicarlo. Tipico di un cantautorato italiano che non ho mai amato. Va bene se scrivi poesie non canzoni. Le parole devono prima di tutto suonare.
In questi anni hai anche pubblicato alcuni dischi di cover a rielaborazione di classici. Quali sono stati in tal senso i tuoi riferimenti musicali degli inizi e come hanno contribuito alla tua formazione? E oggi che cosa ascolti?
Dylan, Young, Springsteen, Waits, il blues americano, il folk irlandese. E la musica classica. L’ascolto dipende dallo stato d’animo. Molta musica strumentale. Ma amo molto il silenzio, sono già troppo vessato dalle canzoni che escono dalle radio commerciali.
Sei nato a Jesolo, ma hai un legame particolare con Milano dove si concluderà il tour attuale il prossimo 26 ottobre all’Alcatraz. Puoi dirci qualcosa di più del tuo rapporto con il capoluogo lombardo?
Vivo a Milano da 26 anni e amo questa mia città d’adozione. Con tutte le critiche che puoi fare, resta ancora una città dove ha senso vivere, per me. In più considera che ho un figlio di vent’anni “milanese” doc. Una ragione fondamentale ovviamente per esser ancora qui, per quanto il rapporto con la mia terra natale sia sempre molto vivo.
Chiudiamo da dove abbiamo cominciato. Qual è oggi per Massimo Priviero il futuro del rock italiano?
L’unico presente e futuro possibile per chi è un essere umano e non una macchietta nelle mani di qualcuno è nell’essere liberi e veri. E non credere che certo successo sia un valore nell’esistenza. È una cosa che puoi intercettare se quel che sei davvero incrocia magari il grande pubblico. E sono anche cose che io ho vissuto. Ma se quello è il tuo primo pensiero, successo o meno rimani un bicchiere vuoto che non riempirai mai. E questo mondo purtroppo è pieno di bicchieri vuoti. Più o meno rock.