Calcio

Marketing della compassione

Stefano Olivari 11/03/2009

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di Stefano Olivari
Un ‘Dove sono adesso’ triste, rivelato dal Corriere Adriatico. Stefano Turchi, esterno destro dello storico Ancona in A (zero presenze, nella squadra di Lajos Detari e Massimo Agostini) di sedici anni fa, risiede a Bergamo con moglie e figlia ed è stato lui stesso a rivelare di essere affetto da sclerosi laterale amiotrofica. La malattia neurodegenerativa che secondo la statistica è per i calciatori una malattia professionale, mentre nessun medico è mai riuscito a trovare una correlazione diretta pur tenendo conto di traumi, doping, terapie varie subiti durante la carriera. Turchi è messo meglio, se così si può dire, di Stefano Borgonovo: la sua forma di SLA sembra meno aggressiva di altre, in sostanza procede più lentamente. Ma, venendo al problema generale, bisogna dire che a quanto si sa il calcio si autocolpevolizza per un problema per cui non ha colpe accertate. L’incidenza del male è di 2 casi su 100mila persone ‘normali’ all’anno, mentre nel calcio professionistico italiano la malattia ha finora colpito una cinquantina di giocatori del presente e del passato: da Fulvio Bernardini a Turchi. Su un campione piccolo, scelto in modo arbitrario, la statistica ha poco senso (se noi fossimo assassini significherebbe che il cinquanta per cento della nostra famiglia è composto da assassini) e rischia di alimentare solo un marketing della compassione dove tutti si sentono più buoni a costo zero chiedendo poi soldi ai soliti che pagano, cioé i tifosi. Un marketing che di solito i malati sono i primi a rifiutare, come non a caso ha fatto Turchi: ”Questa malattia è una casualità, purtroppo è toccato a me”. Dai morti dei cantieri di Italia Novanta ad oggi il calcio è la chiave giornalisticamente più comoda per sollevare un problema, dal razzismo alla disoccupazione, però non è il ricettacolo di tutti i mali del mondo.

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