Basket

L’ora di Bryant in giacca

Stefano Olivari 29/01/2014

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Giovedì scorso stavamo correndo a South Beach insieme a Steve Blake, aspettando la partita dei Lakers contro gli Heat… Stamattina eravamo però in coda a Lainate, quindi usciamo dalla modalità ‘aperitivo’ per parlare della stagione dell’unica squadra NBA di cui guardiamo tutte le partite (non dal vivo, ma umilmente grazie a League Pass), ben sintetizzata dalla situazione del playmaker a suo tempo campione NCAA con Maryland. Sempre sul punto di tornare (“Sta lavorando a parte”, direbbe un addetto stampa italiano), in un ruolo reso scopertissimo dagli infortuni di Nash e Farmar, sempre con il sospetto di essere funzionale a questo anno di transizione. Anzi anni, visto che Kobe minaccia di voler tirare fino al 2016 inibendo l’arrivo di una seconda stella per motivi salariali e caratteriali. E così Blake, che si godeva in spiaggia la moglie twittatrice e il figlio, riconosciuto solo da noi e forse da qualche Rolando che si chiedeva dove avesse già incrociato quella faccia, dopo una onesta carriera NBA è diventato a 34 anni un giocatore del quale in tanti ai Lakers aspettano il rientro dopo l’infortunio al gomito (il destro, quello del braccio con cui tira). A pochi metri di distanza abbiamo quindi osservato la disperazione di D’Antoni, che ha una squadra che lo segue (del resto da sempre i giocatori medi lo adorano) e che applica con intelligenza i precetti del dantonismo (scelte rapide, ancora prima che tiri), ma che si rende conto di essere su quella panchina per fra trascorrere del tempo nell’attesa improbabile dell’ispiratore di Seedorf  (insieme a Mandela, Einstein, forse anche Gigi e Andrea) o in quella più concreta di un Kobe ingiacchettato. La scorsa notte occhi inutilmente pallati per vedere una brutta versione dei Pacers passeggiare allo Staples, ma non c’era bisogno di un impegno da finale della Eastern Conference contro Miami per battere la squadra di Manny Harris e Robert Sacre, dove Pau Gasol l’ha presa bene ed è tornato il Gasol pre Lakers, macchina soft da 20 punti e 10 rimbalzi a partita. Il peggio, per D’Antoni, è che nessuno lo mette in discussione dopo 17 sconfitte nelle ultime 20 partite, segno che agli eredi di Jerry Buss (quasi un anno dalla sua morte, ma ieri con ottimismo californiano ne è stato ricordato il teorico 81esimo compleanno) va bene così. Il record (16-30) è tragico per la tradizione e il monte salari dei Lakers, ma incredibilmente (solo perché ‘la matematica non li condanna’, in realtà i Mavs sono 10 vittorie avanti con 36 partite ancora da giocare) consente ancora di puntare all’ottavo posto a Ovest con relativo 0-4 preso da Thunder e Spurs al primo turno dei playoff. Sono insomma nella situazione peggiore, per una squadra NBA: non così marginali, come mercato e come immagine, da fare tanking alla Borlotti, ma anche privi di giocatori con margini di miglioramento significativi. A metà del guado, con un allenatore di transizione (in tutti i sensi) e una stella alla quale nessuno può indicare la porta perché in altre vesti, ma solo quando lo dirà lui, sarà il futuro della franchigia. Modesta previsione: attesa messianica del rientro in campo di Kobe-Nash e onorevole uscita nei playoff, poi ritiro di Bryant per liberare spazio salariale e fargli recuperare comunque qualche dollaro da allenatore. La logica direbbe che l’ottavo posto è quasi impossibile e quindi di scambiare subito il 34enne Gasol con talenti grezzi, ma per l’operazione ‘Onorevole chiusura di Kobe’ (tanto il sesto anello non lo vincerà di certo nei prossimi anni) la presenza di Gasol a rendere meno triste il contesto è importante. Poi la situazione potrebbe volgere al bello, perché i contratti 2014-2015 sono solo 5: Bryant (23,5 milioni di dollari), Nash (9,701), Young (1,227), Sacre e Marshall (0,915 ognuno). Se Bryant passa in panchina e Nash si mette una mano sulla coscienza c’è spazio, a livello di free agent o di gente che può uscire dal suo contratto (LeBron James, per dirne uno), per fare qualsiasi cosa.

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