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Lo sport e il confine del mondo, ripasso di Tavcar

Stefano Olivari 17/01/2020

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La Jugoslavia era uno stato artificiale e libri come Lo sport e il confine del mondo hanno il merito di ricordarcelo, visto che quasi tutte le guerre della storia sono nate anche da odi profondi a un certo punto riemersi, non soltanto da un manipolo di criminali che ha ingannato la presunta brava gente. L’agile (107 pagine) opera di Sergio Tavcar, con il contributo di Marco Ballestracci (editore Mattioli 1885) è un utilissimo ripasso scritto da una persona al tempo stesso fuori e dentro i fatti.

Fuori perché il leggendario telecronista di Tele Capodistria è italiano, della minoranza slovena di Trieste. Dentro perché da giornalista Tavcar ha vissuto minuto per minuto la disgregazione degli anni Ottanta, dopo la morte di un unificatore (con le cattive ma anche con il carisma) come Tito, con lo sport capace come pochi altri settori di anticipare tendenze di massa.

In questo senso Tavcar è d’accordo con chi sostiene che i fatti del Maksimir, durante Dinamo Zagabria-Stella Rossa Belgrado del 1990 (quella del calcio di Boban al poliziotto e di tutto il resto), siano stati il vero inizio delle guerre jugoslave, dalle quali la Slovenia dell’autore è stata sostanzialmente fuori, a causa di una compattezza linguistica ed etnica mancante in quasi tutte le altre parti della ex Jugoslavia. Il famoso ‘La Serbia è dove c’è un serbo’ di Milosevic di poteva applicare alla Slovenia con più difficoltà che altrove.

Nel libro c’è un po’ di pallacanestro jugoslava, ma sul tema Tavcar aveva già scritto l’opera definitiva (La Jugoslavia, il basket e un telecronista), e molto sport. Tante riflessioni, su cui si può essere o meno d’accordo, ma sempre molto argomentate. Da cui si intuisce che tante situazioni ancora oggi sono provvisorie: come può durare a lungo la Bosnia nata dagli accordi di Dayton?

Un utilissimo ripasso di storia recente, con il filtro dello sport (strepitoso il capitolo sulla palla) e la balcanicità raccontata con ironia e serietà: dietro la kicma (in pratica una finta per mettere a sedere i difensori, anche senza poi fare niente di concreto) di Safet Susic e la ridicolizzazione degli avversari c’è un mondo affascinante anche se non per questo da prendere a modello. Rimaniamo felici di essere italiani, anche se abbiamo pianto per Drazen Petrovic e potremmo descrivere ogni autogrill fra Milano e Zagabria da tante volte che abbiamo fatto questo viaggio.

Insomma, in queste pagine ritroviamo tante lezioni che Tavcar ha dato con il suo lavoro e le sue prese di posizione, a volte volutamente provocatorie. Da suoi lettori lo percepiamo immune rispetto a quella Jugo-nostalgia di alcuni uomini di sport (viene in mente Boscia Tanjevic), se non per il piacere di vedere insieme un quintetto campione del mondo composto da due croati (Drazen e Kukoc), due serbi (Divac e Paspalj) e uno sloveno (Zdovc), oppure uno campione olimpico con due croati (Cosic e Jerkov), un serbo (Kicanovic), e due bosniaci (Delibasic e Dalipagic, che in seguito sarebbe diventato serbo).

Il fascino del libro risiede in gran parte in Tavcar stesso, sospeso anche per storia personale fra cosmopolitismo (il mito dell’Impero Austro-Ungarico è duro a morire) e identità da piccole patrie. Un equilibrio possibile solo a livello personale, per cultura e sensibilità, perché poi a livello aggregato l’identità (come del resto l’assenza di identità) può degenerare in altro. Nella stessa civilissima Trieste le antipatie fra etnie sono ben nascoste ma forti. Libro bellissimo, sia per chi ripassa sia per chi sente certe cose per la prima volta.

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