L’Italia di J.R.

26 Novembre 2012 di Stefano Olivari

Larry Hagman e Mike Bongiorno, uno al martedì sera e l’altro al giovedì, sono stati gli anni Ottanta di Canale Cinque e in più di un senso gli anni Ottanta italiani. Facciamo la cover di un pensiero di Carlo Freccero per salutare l’attore che ha dato il volto all’immortale J.R. Ewing, che pochi giorni fa ha lasciato per sempre questa terra. Fra i vari coccodrilli pubblicati in Italia ci ha colpito che nessuno abbia sottolineato che l’ultima serie di Dallas sia stata negli Stati Uniti un grande successo, nonostante il capolinea quasi arrivato per tutti i suoi protagonisti. Capolinea non ideologico, però, visto che le saghe familiari aventi sullo sfondo un minimo di soldi (perché dovremmo sognare di essere i pezzenti che già siamo?) non moriranno mai: poi lo spirito del tempo può essere intercettato sia da Thomas Mann che da Piripicchio. In Italia una Mediaset ormai senza identità (perché Pier Silvio Berlusconi gode di buona stampa?) l’ha dirottato su La Cinque dopo un cattivo esordio su Canale Cinque, sempre nel suo canonico martedì sera, dove l’abbiamo seguita fino all’ultima puntata sopportando anche la vista di J.R. che diventa semi-buono complice anche la quasi dipartita del fratello Bobby. Un’ultima serie piena di situazioni di culto, da J.R. che viene salutato calorosamente dal proprietario dei Dallas Cowboys Jerry Jones, che dello Ewing più cattivo ha molto, allo stadio che gli tributa un’ovazione, passando per la corsa di Sue Ellen a governatore e le comparsate di Ray Krebbs e Lucy. Insomma, J.R. è morto ma Dallas forse andrà oltre la sua quattordicesima stagione. Non stiamo scrivendo il milonesimo coccodrillo per uno che ai suoi tempi è stato uno dei volti più noti del pianeta, ma solo riflettendo sull’equazione Dallas uguale anni Ottanta uguale Berlusconi uguale un’Italia che non è mai stata rappresentata degnamente. Neppure da Berlusconi, che pure l’aveva compresa. Non un’Italia di piccoli petrolieri con l’ambizione di trivellare nel proprio giardino, ma un’Italia senza feticci ideologici o tabù. Neppure quello del denaro, che al di là delle apparenze in Dallas conta pochissimo: senz’altro meno delle radici (vedere l’ossessione per Southfork), della libertà (tutti sono imprenditori o aspiranti tali), dell’affermazione personale (nessuno si accontenta di essere ricco, tutti vogliono che il mondo gli riconosca che sono bravi o almeno buoni). Un’Italia forse maggioritaria, di sicuro numericamente importante, che si trova obbligata a scegliere solo fra varie declinazioni di sinistra. Per colpa anche dell’uomo che a suo tempo capì l’importanza di Dallas, oltre che quella di Dell’Utri.

Share this article