Basket

Il saluto di Ivanisevic

Simone Basso 21/11/2010

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di Simone Basso
Fine della biografia di Drazen Petrovic: gli ultimi fuochi con l’ultima grande Jugoslavia, l’argento di Barcellona con la Croazia, la morte in auto. E l’omaggio infinito di un popolo…

“La poesia è un petalo/ che cade nel vuoto/ in bocca ad un leone/ che ruggisce” (Alda Merini)

Drazen non volle mai saltare una partita con la SUA nazionale croata, ebbe anche la ventura di capitanare l’ultimissima Jugoslavia ai Mondiali prima della guerra: uno squadrone che schierò il pioniere di Sebenico e la nuova onda dei Divac, Kukoc, Paspalj, Komazec.
Fu uno dei pochi che resse il paragone, a Barcellona ’92, con il Dream Team dei dioscuri. Così, nel post stagione Nba, non declinò nemmeno una partitella dei biancorossi contro la Slovenia in Polonia.

Il 7 Giugno 1993 dormiva beato quando a Denkendorf, Germania, la Wolkswagen Golf rossoscuro, guidata dalla fidanzata Klara Szalantzy, si schiantò contro un camion sbandante.  Alle 17.20 di una giornata di pioggia e nebbia Drazen Petrovic andò oltre. Per un bel po’ di tempo, ignorando la realtà, l’abbiamo cercato nei roster dell’Nba; gesto sicuramente meno assurdo e incomprensibile che morire a ventinove anni ancora da compiere. Tutte le rievocazioni viste e lette in questi anni ci appaiono gusci vuoti: perchè l’icona alla Marilyn Monroe (l’epicità del morire giovani e bellissimi) non rende giustizia al dolore infinito di mamma Biserka.

Il funerale di Drazen fu la cerimonia di un popolo intero. Willis Reed e Chris Morris, i rappresentanti dei Nets all’estremo saluto, si resero conto dello status di Petrovic in patria solo vedendo il dolore e la partecipazione di quella folla. D’altronde sono stati pochissimi nella storia dello sport ad incarnare l’anima di una nazione: Tave Schur nella Germania Orientale, Diego Maradona in Argentina…Drazen, in Croazia, fu uno di questi eletti.

La probabile parabola tecnica di Petro ci ha sempre incuriosito; non sappiamo se sarebbe arrivato un declino prematuro, alla Danilovic, frutto dell’eccesso di lavoro e del chilometraggio accumulato. Coltiviamo l’idea che, con l’esperienza, avrebbe gradito maggiormente le responsabilità nella costruzione del gioco. Quindi meno Dalipagic delle guardie, più Slavnic nel playmakeraggio.
Ebbe dei contatti con il Panathinaikos per rientrare (trionfalmente) in Eurolega, stufo delle trasferte infinite americane e dello spogliatoio impresentabile delle Retine. Però pensiamo che le sirene di Pat Riley l’avrebbero convinto ad attraversare l’Hudson, per indossare la casacca dei Knicks. L’ennesimo ribaltone di una carriera frenetica, ciliegina sulla torta di una franchigia che con lui (in aggiunta agli Ewing, Oakley, Starks..) avrebbe avuto l’esoscheletro giusto per almeno una parata in Fifth Avenue.

L’epilogo perfetto della vicenda arrivò otto anni dopo, sull’erba vergine di Wimbledon.
Era un lunedì uggioso, in un tempo che ancora rispettava i rituali della pioggia e l’essenza dei gesti bianchi.
Una finale indimenticabile, con due protagonisti che avrebbero meritato la vittoria a prescindere: l’aussie Pat Rafter, ultimo panda del serve and volley creativo, e Goran Ivanisevic, amletico e irrazionale nel suo power tennis estremo. Vinse, al termine di un incontro sconsigliato ai deboli di cuore, il mancino di Spalato (6/3 3/6 6/3 2/6 9/7); che nel discorso durante la premiazione improvvisò (come era nella sua indole geniale) un ricordo dell’amico. “..One more thing. 1993.. I would like to dedicate this victory to a friend of mine. In 1993 he died in a car accident, he was the best european player and he played in the Nba. His name was Drazen Petrovic and this one (Guardando il cielo..) is for you, man… If you see me, rest in peace and thank you very much.” C’è bisogno di aggiungere altro?

Simone Basso 
(in esclusiva per Indiscreto)

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