Basket

Ha vinto Michael Jordan

Stefano Olivari 09/07/2010

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di Stefano Olivari
LeBron James ha fatto un errore, anche se nel giugno 2011 dovesse festeggiare il suo primo titolo NBA insieme ai neo-compagni Wade e Bosh. Perchè questo suo primo titolo, peraltro tutto da conquistare prima di arrivare ai Lakers da three-peat passando per una Eastern Conference che sta molto migliorando, non avrebbe niente di jordaniano. Niente di male, ma messe a posto venti generazioni future si gioca anche per l’immagine e la gloria. Non è un caso che stanotte Espn subito dopo l’annuncio in diretta di LBJ (in un contesto tristissimo, con la canottiera che spuntava dalla camicia), abbia mandato in onda immagini di Jordan con annessi commenti sul valore dei suoi primi Bulls da titolo.
Il Jordan che vinse nel 1991 era lo stesso che per anni aveva preso mazzate (non metaforiche, perchè l’hand check era legale) nei playoff: prima dai Celtics e poi dai Bad Boys di Detroit. Con un gruppo cresciuto nel tempo, dopo lo storico draft del 1984 che aveva regalato Jordan a Chicago: John Paxson arrivò nel 1985, Horace Grant e Pippen nel 1987, Cartwright, Hodges e Perdue nel 1988, Stacey King e BJ Armstrong nel 1989. Una crescita non molto diversa da quella del roster dei Cavs intorno a James, anche se con meno doppioni e un allenatore di un’altra categoria. Certo, nessuna mossa di mercato di Dan Gilbert avrebbe garantito un titolo.
Il proprietario dei Cavs l’ha presa comunque malissimo, visto il numero di operazioni fatte solo per compiacere LBJ, e stamattina a SportCenter hanno letto un suo messaggio in cui la parola più accomodante era ‘cowardly’. In un’intervista all’Associated Press Gilbert ha poi accusato James di avere mollato i Cavs già durante la serie di playoff persa con i Celtics, ben prima dell’imbarazzante garacinque, e ha concluso promettendo ai tifosi che a Cleveland si vedrà un titolo NBA prima che a Miami (su questo avremmo qualche dubbio). Resta il fatto che questa decisione, che avrebbe dovuto scrivere la storia NBA degli anni Dieci (e che magari lo farà anche), ha lasciato sul terreno solo sconfitti.
Prima di tutto Cleveland, che ha perso il suo mito e che al di là del record tornerà in prospettiva ad essere una destinazione poco gradita. Poi la NBA, che sulla pari dignità delle sue franchigie fonda la sua credibilità: già minata dai mini dream team costruiti grazie a gm amici di alcune ‘grandi’ (puro moggismo), questa credibilità non può che diminuire. In altre parole, anche senza la crisi economica c’è la sensazione che nella lega ci siano dieci squadre di troppo: squadre dove quelli veri vanno malvolentieri e che accettano, senza dichiararla, la propria sudditanza tecnica e commerciale. Fra gli sconfitti anche tutti quelli che hanno buttato via due stagioni per creare spazio salariale, dai Knicks in giù: D’Antoni non ha costruito niente, avendo avuto solo mandato di liberarsi dei contratti pesanti, e dopo varie operazioni folli (l’ingaggio di Duhon su tutte) adesso si ritrova costretto a considerare una superstella quello Stoudemire sul quale ai tempi dei Suns aveva qualche dubbio. Ultimo ma non ultimo LeBron, che passerà per quello che ha avuto bisogno di un altro big (Wade, perché Bosh non lo è) per vincere, forse, un anello che con qualche errore in meno avrebbe potuto vincere anche a casa sua. A voler trovare per forza un vincitore, diremmo il proprietario dei Bobcats: tutti i suoi eredi, anche Bryant, hanno avuto bisogno di un altro campione fatto e finito, mentre Pippen e gli altri erano diventati grandi o almeno medi grazie a lui.

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