Fuga verso la provincia

14 Giugno 2008 di Luigi Bolognini

Caro direttore,
dormono dormono sulla collina i sogni di una Milano città di tutti gli sport. “Antologia di Spoon River” è il libro migliore per descrivere la situazione attuale: un cimitero. In un mese sono spariti il volley (che, travolto dai debiti, ha ceduto il titolo sportivo a Pineto) e l’hockey ghiaccio (che ha chiuso e basta, sconfitto dall’indifferenza del sistema socioeconomico e dalle beghe di cortile del movimento). Due decisioni che si sommano a una situazione così riassumibile per sommi capi: il baseball (A2, un passato tra scudetti e coppe europee) che spesso non si può allenare sul proprio campo perché il gestore – una società di hockey inline – lo affitta per partite di calcetto, un palazzetto dello sport che è crollato nel 1985 sotto il peso di un’abbondante nevicata e non è mai stato ricostruito o rimpiazzato, il basket che si è salvato solo perché si è trovato un mecenate, un torneo Atp che era tornato e che è sparito con la morte del suo organizzatore, un palaghiaccio troppo piccolo ma i cui progetti di ampliamento sono stati contestati (anche con buoni motivi) da comitati di quartiere fino a perdersi nel nulla, gli impianti di proprietà del Comune che in molti casi sono lasciati a se stessi, chiusi o quasi inutilizzabili, il velodromo Vigorelli (teatro di epiche 6 giorni e di record dell’ora) che langue. In tutto questo, Milano è stata eletta capitale europea dello sport 2009, qualunque cosa questo significhi, e ha appena ospitato una notte bianca all’insegna dello sport animata dalle società dilettantistiche, le sole che con le unghie e coi denti riescono a fare ancora qualcosa sul territorio.
L’assessore allo Sport, Giovani Terzi, si difende: «Sono arrivato da soli due anni, questa è una situazione che si trascina da decenni. La verità è che questa è una città calciocentrica e che, al di fuori del pallone, o c’è un mecenate o si chiude». Dal suo punto di vista ha anche ragione, benché due notazioni si possano fare. Primo, lui no ma la sua parte politica è al governo di Milano quantomeno dal 1997, un tempo mica male per impostare qualcosa in tema di impianti. Secondo, il suo partito è presieduto da un milanese che è l’uomo più ricco d’Italia e il suo sindaco ha un cognome che qualcosa in città vuol dire. Se Moratti e Berlusconi sono stati capaci di salvare l’Olimpia di basket dal fallimento, perché non ripetono l’operazione con gli altri sport milanesi? Berlusconi a fare la polisportiva provò, anni fa, salvo rinunciare di fronte alle prime sconfitte sportive. Se la città è calciocentrica, siano Inter e Milan a caricarsi sulle spalle il movimento sportivo cittadino. I costi sarebbero comunque inferiori al contratto di una qualunque riserva rossonerazzurra e a breve seguirebbero gli investimenti anche di altre grosse aziende. Qualcuno poi obietterà che se non c’è seguito della gente è inevitabile che gli sport minori (definizione esecrabile, peraltro) facciano questa fine. Vero, ma rovesciamo il discorso: non è che a furia di offrire calcio, calcio e calcio la gente si abitua, esattamente come a furia di offrire spettacoli tv di pessima qualità alla fine non si apprezzano più quelli buoni, esattamente come a furia di impestare il palato di cibo spazzatura alla fine non si percepiscono più i sapori?
Ma detto di Milano, dove a questo punto l’Olimpia diventa il riferimento di tutti gli sportivi anticalcistici (sempre più) o a-calcistici, resta da fare un altro discorso. Quello del suicidio che due sport non esattamente di massa compiono permettendosi di perdere Milano. Il caso più eclatante è quello del volley, visto che alla rinuncia di Milano è seguita quella di Roma. Uno sport che non riesce a coinvolgere le due principali città italiane è condannato al nanismo più o meno volontario, al vorrei ma non posso, o forse più precisamente al potrei ma non voglio. Anche perché il discorso va allargato. Ecco la classifica delle prime 10 città italiane per abitanti: Roma, Milano, Napoli, Torino, Palermo, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Catania. In A1 non ce n’è nessuna, in A2 Catania. La città più grossa in A1 è Verona (12esima) se sarà ripescata come sembra, sennò Padova (15esima). Il basket – lo sport con cui il volley dovrebbe e potrebbe competere per numero di appassionati – delle prime 10 città ne ha 4, di cui le prime 3, in serie A, e una città con 2 squadre. Poi magari vince Siena, ma il movimento c’è e coinvolge l’intera Italia. Qui invece stiamo a fare lo sport dei paesini, dei 7, cioè 14, nani. Risultato, i poveri ma belli sono senza dubbio più poveri visto che ogni anno c’è uno sconquasso di diritti ceduti, di rinunce e di stipendi non pagati, e quanto al belli c’è da dubitarne. Magari ne escono campionati equilibrati e ricchi di colpi di scena, ma tecnicamente non elevatissimi. Dove crede di andare questo sport, così? Uno sport che è fatto in provincia e se ne compiace pure non va da nessuna parte, suscita al massimo simpatie, va bene per i cartoni animati di Mimì Ayuhara o di Mila e Shiro, può interessare i nostalgici di uno sport più sano e vero e con meno soldi, ma non ha chance di crescere. Le potenzialità sarebbero interessanti, proprio perché la crisi anzitutto morale, la malattia da troppo benessere come la gotta, che ha il calcio potrebbero spostare tifo e interesse verso sport cosìddetti minori, più umani e sinceri. E il volley è e resta uno sport spettacolare, divertente, imprevedibile, con tifoserie calde ma correttissime (una volta un ultrà di Milano mi disse: «Vorremmo cantare: “Ci state facendo arrabbiare”, non sarà troppo pesante?») ciò che gli garantisce una straordinaria capacità di diffusione tra ragazzini e ragazzine, che se coltivati come si deve assicurerebbero un futuro di palazzetti pieni. Ma se invece uno si appassiona a una squadra e questa chiude i battenti a fine stagione, è un tifoso perso per sempre. E lo scontro tra metropoli e provincia (in cui spesso vince la metropoli, ma non sempre, e qui sta il bello) è il sale di ogni sport. Mentre, con tutto il rispetto, uno sport che in A1 propone solo Taranto, Forlì, Pineto, Piacenza e non anche Roma, Milano, Napoli, Torino – per quanto resti un bellissimo sport da vedere – non riuscirà mai ad appassionare. E soprattutto non riuscirà mai a decollare.
Peggio ancora, se vogliamo, il discorso sull’hockey ghiaccio. Che già di suo per motivi climatici in Italia è diffuso solo al nord. Ma prima almeno c’era la lotta Milano contro tutti, visto che le altre squadre sono concentrate nella zona delle Dolomiti. Adesso la A1 potrebbe tranquillamente chiedere di giocare nel campionato austriaco e nessuno noterebbe la differenza. L’hockey è e resta uno sport pane e salame, e se per molti aspetti va bene così, perché è bellissimo che a fine partita i tifosi possano andare a bere una birra con il giocatore che ha appena fatto tre reti, per molti altri no. I Vipers Milano erano una società all’avanguardia: avevano bilanci certificati e una carta dei servizi offerti al tifoso, e anche così hanno vinto 5 scudetti di fila dal 2002 al 2006, ma solo perché avevano un patron unico nell’unire marketing e passione come Alvise di Canossa. Altrove c’era dilettantismo, e alla fine voglia di restare nel proprio cortiletto: non si è mai riusciti a trovare un accordo sul numero di stranieri e di oriundi tesserabili, a fronte di un vivaio nostrano poco fertile. In buona sostanza l’hockey ha perso clamorosamente un treno come quello delle Olimpiadi invernali giocate in casa, non ha saputo sfruttare i riflettori che si erano accesi, la fiammata di passione che c’era stata. E a questo punto si riduce a un malinconico palio delle contrade dolomitiche. In sostanza se non alla morte, al disinteresse. Che forse è pure peggio.

Luigi Bolognini
luigi.bolognini@fastwebnet.it

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