Economia

Chi ha vinto il Nobel 2025 per l’economia

Stefano Olivari 13/10/2025

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Abbiamo da poco letto che il Premio Nobel per l’Economia 2025 è stato assegnato a Joel Mokyr, Philippe Aghion e Peter Howitt e la nostra prima domanda da bar, al di là di chi siano (ma per quello basta Google, onestamente anche per noi avidi lettori della materia), è stata sulle motivazioni, che per quanto riguarda l’economia sono pericolosissime visto che devono confrontarsi con fatti comprensibili a un largo pubblico, diversamente da quanto accade per Nobel scientifici, che non sono comprensibili a un largo pubblico, e per i Nobel umanistici, che non sono basati sui fatti né potrebbero esserlo. 

In estrema sintesi Mokyr, storico economico di origine israeliana, ha esplorato il ruolo delle idee e delle istituzioni nella Rivoluzione Industriale, mentre Aghion e Howitt, economisti uno francese e l’altro canadese, hanno sviluppato modelli teorici sull’impatto della concorrenza e della ricerca e sviluppo sulla crescita. La teoria di Mokyr sull’innovazione autogenerante ci ha incuriosito meno di quelle di Aghion e Howitt sulla distruzione creativa e sul modo di gestirla dal punto di vista sociale.

Cose già lette e stralette, dette e stradette, che ci riportano alla mente non soltanto lo Schumpeter scolastico ma anche uno dei libri più interessanti degli anni Novanta (finalmente un libro letto! In questo momento stiamo affrontando la nuova autobiografia di Borg), quello scritto da Clayton Christensen.  In The Innovator’s Dilemma, Christensen riprese la lezione di Schumpeter per  descrivere come nuove tecnologie o modelli di business low-cost e inizialmente meno performanti possano sconvolgere i mercati dominati da aziende considerate imbattibili. Di disruption hanno parlato in tanti (forse anche Farinetti) ma è quella di Christensen ad avere poi creato tanti discorsi in cialtronese da Silicon Valley, un gergo più datato dello Sun Tzu citato dai manager cazzuti per impressionare la segretaria, aka assistente, con la catenina alla caviglia.

Il libro di Christensen ci aveva affascinato perché basato su una teoria controintuitiva e cioè che tante grandi aziende, secondo l’autore l’80%, falliscono non perché siano gestite male, ma per il motivo opposto: sono guidate bene, da manager che non fanno sconvolgimenti e puntano a miglioramenti incrementali. Il dilemma nasce proprio da questo: massimizzare il vantaggio per gli azionisti significa penalizzare l’azienda nel lungo periodo, la scelta dipende quindi dall’orizzonte temporale che si sceglie. Come nel calcio, in base ai risultati si formulano teorie: la Apple di adesso non ha alcunché di disruptive, ma non ci sembra stia andando male, così come Microsoft, Meta, Alphabet, eccetera, mentre dall’altro lato è facile citare Kodak, Blockbuster, eccetera. Insomma, tutta questa esaltazione del disruptive (fatta peraltro da gente con il posto fisso a vita) ci ricorda quelli che ti invitano a uscire dalla comfort zone.

stefano@indiscreto.net

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