Hunting Hitler, il gioco meglio del risultato

11 Maggio 2016 di Stefano Olivari

Qualche giorno fa si è letto che in vari paesi sarebbe scoppiata la Hitler-mania, non nel senso di movimenti neonazisti ma di rimasticatura pop dell’immagine del Fuhrer, in varie chiavi, in maniera non dissimile da quanto avvenuto anni fa con Mao e il Che. L’unica chiave che ci interessa è però quella storica: siamo freschi della visione degli otto documentari di Hunting Hitler, che grazie a History Channel non ci hanno regalato rivelazioni alla Voyager ma un metodo di indagine figlio sia della ricchezza di mezzi a disposizione che di un’ideologia investigativa moderna, che potremmo sintetizzare in una frase: ogni affermazione, a maggior ragione se entrata ormai nel senso comune, deve essere provata con mezzi scientifici. Non è che perché in un milione di libri si è scritto che Hitler morì suicida nel bunker di Berlino allora così sia accaduto davvero, così come ovviamente bisogna diffidare di chi afferma il contrario.

In pratica Hunting Hitler parte dai file dell’FBI desecretati nel 2014, pieni di segnalazioni e analisi riguardanti la presenza di Hitler in Sudamerica con la guerra già finita da anni. Notizie che l’FBI riteneva fondate e che per anni sono state oggetto di indagini segretissime, per l’effetto destabilizzante che avrebbe avuto in Europa la sola ipotesi di Hitler in circolazione. Da leggenda metropolitana avallata dalle famose parole di Stalin a Potsdam (nonostante la versione ufficiale sovietica, secondo cui il dentista di Hitler avrebbe riconosciuto nei resti della dentatura un lavoro da lui fatto) e di alcuni delegati americani al processo di Norimberga (dubbiosi, come minimo, sulla reale sorte del dittatore) a oggetto di indagine, la fine di Hitler non è di sicuro un dettaglio e il punto di partenza ovviamente sono i suoi ultimi giorni a Berlino. Il 20 aprile, giorno del suo compleanno, l’ultima apparizione pubblica, il 30 la sua morte presunta con i resti ritrovati dai sovietici e da loro conservati fino a quando non si è più parlato di ‘sovietici’. Curiosità: un’analisi del cranio effettuata in piena era Putin, nel 2009, ha evidenziato che si tratta di un cranio femminile…

Prima di entrare in modalità Giacobbo bisogna però anche segnalare le numerose testimonianze, dalla segretaria a numerosi altri collaboratori (su tutti Martin Bormann), che parlano di un Hitler vivo fino al 30. La questione della date è importante, perché praticamente subito dopo il 20 dall’aeroporto di Templehof era diventato quasi impossibile decollare senza essere intercettati dai sovietici. Ma questa sarebbe già storia. Come detto, di Hunting Hitler è affascinante il metodo: History Channel oltre a droni, motoscafi e georadar ha messo insieme un dream team di detective, con una buona conoscenza della storia ma non storici di professione, e ha chiesto loro di applicare le moderne tecniche di indagine a quelle informazioni che l’FBI aveva a disposizione nel 1945. Robert Baer, ex agente di punta della CIA, Tim Kennedy, ranger che ha partecipato alla caccia a Bin Laden e a El Zarkhawi, John Cencich, detective scientifico consulente dell’ONU.

Ne è nato un viaggio affascinante e spettacolare, anche se a tratti un po’ noioso (i grandi investimenti in uomini e mezzi andavano ammortizzati su più puntate), che ha portato da Berlino a Vigo, dove Hitler (o chi era riuscito a decollare da Templehof) era aspettato non dagli azzurri di Bearzot ma da un monastero messo a disposizione da Franco, con tanto di collegamento diretto a una caserma. Da lì alle Canarie e poi in Argentina su un U-boot, con ospitalità assicurata da tedeschi locali in varie località, in particolare a Bariloche. Segnalazioni successive in Brasile e Colombia, con tentativi di rimettere in piedi una rete. Attenzione: viene dimostrata la verosimiglianza di questa ipotesi, ma non certo che Hitler abbia di sicuro usufruito di quella via di fuga, comunque riservata a nazisti di primo piano.

Molto bello e istruttivo è quando la squadra di investigatori abbandona una pista, dopo avere esperito ogni tentativo di seguirla, arrendendosi al ‘Non si può’. Impressionanti le reazioni dei parenti di Eva Braun e il timore che anziani sudamericani di origine tedesca ancora hanno nel parlare di certi argomenti. Parlarne adesso è per noi accademia, perché anche un Hitler centenario sarebbe morto da quasi trent’anni, mentre non lo sarebbe stato negli anni Quaranta e Cinquanta. E comunque mai come in questo caso a vincere non è il risultato (finale aperto, magari ci sarà una seconda serie) ma il gioco, lo schema.

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