Vice, il mistero di Dick Cheney

14 Gennaio 2019 di Indiscreto

I potenti veri non sempre hanno la popolarità di una rockstar e Dick Cheney lo ha dimostrato non soltanto negli otto anni da vicepresidente di George W. Bush. Un film su di lui poteva essere quindi un’operazione spericolata: ci si può appassionare a un personaggio carismatico, si può essere interessati a un criminale certificato, ma non a quello che la massa considera un mestierante della politica. Come se da noi girassero un film su Pier Ferdinando Casini… ‘Vice – L’uomo nell’ombra’ è però un film appassionante, anche perché a differenza di Casini l’uomo venuto dal Wyoming è responsabile di varie migliaia di morti e di una delle guerre più pretestuose e assurde della storia, quella contro l’Iraq del 2003, inventandosi insieme a Blair le armi di distruzione di massa di Saddam e la basi di Al Qaeda. Non è un caso che i grandi media ne riparlino ,malvolentieri, visto il loro sostegno acritico a una porcata che mise insieme la destra affaristica, quella neocon e il fu Ulivo mondiale.

Il film di Adam McKay, che già ci aveva appassionato con La Grande Scommessa (merito anche del libro del grande Michael Lewis), in realtà non calca troppo la mano sugli otto anni con Bush, ma punta più sull’ascesa di Cheney, sostenuto dalla moglie Lynne e partito negli anni Sessanta come portaborse di Donald Rumsfeld (lo stesso Rumsfeld che sarà segretario alla Difesa), e abile a destreggiarsi nei corridoi del potere di Washington in vari ruoli e in varie amministrazioni: Nixon, Ford, Bush padre e ovviamente Bush figlio, la cui rappresentazione macchiettistica è uno dei pochi difetti di un film non certo di nicchia ma comunque pieno di trovate e citazioni autoriali, oltre che di ironia. Cheney è un repubblicano conservatore ma certo non fanatico, se non del potere, abile con il suo team di giuristi di pronto intervento a piegare l’amministrazione ai suoi disegni. È con lui che la Unitary Executive Theory da provocazione intellettuale basata sull’Articolo Due della Costituzione diventa pratica di governo: nell’interpretazione di Cheney un modo per rafforzare l’Esecutivo e soprattutto per renderlo qualcosa di unico insieme al Presidente.

Il narratore è un militare americano immaginario, interpretato da Jesse Plemons (visto in Friday Night Lights), ed il film, che abbiamo visto al cinema Gloria a poche poltrone di distanza da Urbano Cairo (che stia traendo ispirazione per la sua futura discesa in politica?), ha grandissimo ritmo ed è molto duro le rare volte in cui entra nel privato: in particolare nella vicenda che che ha portato qualche anno fa la figlia Liz, lanciatissima come deputato, a prendere (in pubblico) le distanze dalla sorella Mary. lesbica e sempre difesa (fino a quel punto) dal padre. Christian Bale è credibilissimo sia da giovane sia da vecchio, mentre Amy Adams offre una versione un po’ stereotipata della moglie del politico repubblicano. L’effetto Andreotti, cioè attribuire a Cheney ogni nefandezza, è dietro l’angolo, ma McKay con un’espediente non proprio originale (lo usa anche Sorrentino nel Divo, non a caso) offere al suo protagonista la tribuna finale per inquadrare tutto in un contesto e seminare il dubbio anche nello spettatore più ideologizzato in chiave anti Cheney. La sicurezza passa anche per scelte preventive e arbitrarie, non giustificate ma soprattutto non giustificabili. E le teorie di Cheney sul ruolo americano nel mondo sono curiosamente più simili a quelle di Sant’Obama, che di fatto ha proseguito l’opera di Bush, che a quelle di Trump che vorrebbe che i flaccidi europei si difendessero da soli. La vera domanda non è però quella storica su Cheney, ma più generale: esiste davvero molto di meglio, nel mondo, della democrazia americana?

Share this article