Pelé, Altafini, ginga e falsità

16 Agosto 2017 di Stefano Olivari

Ben disposti, con l’approccio e il gusto medio che si confanno al nostro livello culturale, né con Siani né con Godard, ci siamo accostati a Pelé (Pelé: birth of a legend), il film dei fratelli Zimbalist uscito l’anno scorso ed incentrato sulla vita del fuoriclasse brasiliano, dagli inizi fino alla Coppa del Mondo del 1958. Curiosamente le uniche parti guardabili sono state quelle di calcio, non perché credibili ma perché molto spettacolari e con esagerazioni da videogioco, con l’obbiettivo di spiegare per immagini il concetto di ginga, caro all’indimenticabile Franco Rossi (nel film si parla anche di Zito, suo personaggio di culto) e intraducibile, anche se letteralmente si tratta del movimento di piedi della capoeira. In senso calcistico la ginga sta a rappresentare l’autentico spirito brasiliano, dato dalla fusione di varie razze e culture ma più vicino a quella degli antichi schiavi importati dall’Africa, uno spirito difficile da ingabbiare e impossibile da copiare.

Il problema di questo ed altri film biografici è che una biografia può essere romanzata, inventando al limite anche personaggi e fatti per necessità narrativa, ma non può proporre falsità facilmente smentibili. Falsità oltretutto autorizzate, visto che il vero Pelé compare in una scena del film ed è presumibile che abbia dato il suo benestare, in modalità pay, a tutta l’operazione. Sorvolando sugli errori storici (che non fosse la ‘finale’ il Brasile-Uruguay del 1950 lo sapeva anche nostra nonna, poi l’allenatore degli svedesi parla in conferenza stampa come un attivista del Ku Klux Klan…), non si può sentire che da bambini l’arrogante e ricco Altafini prendeva in giro il povero Pelé, la cui madre era domestica a casa Altafini. Non è un dettaglio, ma uno dei temi ricorrenti nel film (l’altro è il rapporto con il padre Dondinho, ex ottimo attaccante con la carriera stroncata da un infortunio): si vedono Altafini e i suoi amichetti giocare, dotati di scarpe da professionisti, contro Pelé a piedi nudi, si vede appunto la madre di Pelé domestica maltrattata dal giovane Altafini, poi un Altafini preferito a Pelé solo per l’infortunio del ragazzino, infine un Altafini che si redime e diventa buono, dicendo di sentirsi profondamente brasiliano (infatti il Mondiale seguente lo giocherà con l’Italia…) e che lo spirito del paese potrà essere rappresentato meglio da Pelé che da lui.

Un cumulo di idiozie incredibili, che lo stesso Altafini ha già sottolineato qualche mese fa, ma la più grande di tutte è quella del contrasto ricchezza-povertà fra i due presunti rivali nella squadra di Feola (interpretato da Vincent D’Onofrio). La famiglia del giovane Altafini, ai tempi conosciuto come Mazola in onore del grande Valentino (lui con due zeta), era povera sul serio e la madre di José fra i diversi lavori fece anche la… domestica. Soprattutto i due ragazzi erano divisi da due anni di età e da 200 chilometri di distanza, che nei primi anni Cinquanta erano 2000 di oggi: Josè è cresciuto a Piricicaba, Pelé a Bauru pur essendo nato altrove. Il loro primo incontro sarebbe avvenuto quando già entrambi erano professionisti alle soglie della Selecão. E ovviamente non è nemmeno vero che il soprannome Pelé nacque da una presa in giro di Altafini (Bilé era un portiere scarso, e nel film il cattivo Altafini lo paragona al figlio della sua presunta domestica), che oltretutto imparò a giocare a calcio da solo, sulla strada (suo padre era operaio), mentre Pelé era stato creato quasi a tavolino da suo padre (comunque finito in povertà, dopo i discreti guadagni con Atletico Mineiro e Fluminense) prima di entrare nel Bauru allenato dal famoso Waldemar de Brito, fratello dell’altrettanto famoso Petronilho. Insomma, un film che proprio perché esagerato ha raccontato bene la cosa più difficile, cioè il calcio e uno dei suoi più grandi campioni, e male ciò che al calcio sta intorno.

Share this article