House of Cards quinta stagione, la spiegazione di Trump

25 Luglio 2017 di Indiscreto

La programmazione della quinta stagione di House of Cards è finita da un numero sufficiente di giorni per poterne parlare senza essere accusati di spoileraggio. Come tutti i suoi fan sanno e come del resto è logico, a livello di idee si è davvero raschiato il fondo del barile arrivando ad un epilogo scontato e al tempo stesso aperto, cioè Claire Underwood che diventa la prima donna presidente degli Stati Uniti. Ci riesce più o meno nello stesso modo in cui ci era riuscito il marito Frank, cioè grazie alle dimissioni del presidente in carica (che in questo caso era Frank stesso) in seguito a manovre di palazzo e minacce di impeachment.

Ma il cuore della quinta stagione di questa serie non è tanto la trama, partita per la tangente con l’omicidio come soluzione di tutte le situazioni intricate (di culto quello di Tom Yates, autore e amante di Claire), quanto il suo rapporto con l’ascesa di Trump che ha oggettivamente messo in difficoltà tutte le mille fiction basate sulla Casa Bianca. La scelta degli sceneggiatori di House of Cards è stata radicale: in un mondo che vede l’ascesa di outsider e populisti (o almeno definiti tali dai media tradizionali), la politica americana rappresentata è tuttora totalmente in mano a professionisti della politica. Se nelle stagioni precedenti gli Underwood spiccavano per cinismo e assenza di una vera ideologia, in questa qualunque loro alleato o rivale li supera e li fa apparire in certi momenti quasi romantici (bella la doppia scena in cui toccano la bandiera). Su tutti il sottosegretario Jane Davis, maneggiona con buone entrature internazionali, e Mark Usher, stratega della campagna repubblicana per Will Conway e poi passato con i democratici Underwood.

In più episodi si spinge sul pedale del grottesco e dell’ironia, soprattutto in occasione delle elezioni condizionate e poi bloccate da una minaccia terroristica creata ad arte dagli Underwood, ma in punta di diritto tutto sta in piedi: soprattutto lo scenario di un presidente scelto dalla Camera dei rappresentanti, in mancanza dei 270 voti di grandi elettori necessari. Tutt’altro che fantapolitica, nel mondo di oggi: basti pensare a un Trump che avesse corso da indipendente invece che con i repubblicani o magari in futuro a un Bloomberg, per non dire uno Zuckerberg. Ci colpisce sempre, nelle fiction statunitensi, la buona immagine che hanno i giornalisti: lì ancora fanno inchieste, almeno nelle fiction, ma soprattutto sono qualcosa di diverso dagli uffici stampa.

In generale una serie che ha cambiato pelle, lanciando suggestioni quasi grilline (il ritrovo dei potenti del mondo incappucciati può rendere l’idea) e scherzando su se stessa (tipo con il segretario di Stato fatto rotolare dalle scale prima di testimoniare), ma che coglie nel segno: il perché di tante carriere e di tante dimissioni rimane inspiegabile, così come certe ossessioni bipartisan tipo il Medio Oriente. In questo quadro gli interventi militari sono un puro strumento di consenso, e ci voleva un elefante nella cristalleria come Trump per dire che gli americani non possono morire per la sicurezza degli altri. È probabile che dopo questa parentesi la Casa Bianca torni a professionisti della politica, non meno indegni di quelli rappresentati da House of Cards. Probabile che Netflix produca anche la sesta stagione, con i due attori protagonisti a rivaleggiare in bravura: per noi la freddissima Robin Wright supera il più gigione Kevin Spacey, ma sono sfumature. A quattro anni e mezzo dalla prima stagione tutto rimane più che guardabile.

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