Sonisphere 2015, sete Metallica
Basta uno sguardo, forse neanche quello, e decidiamo di abbandonare le ansie generazionali votate al pogo. Ci accontentiamo di uno dei tre schermi che proiettano le immagini provenienti dal palco. Parte Morricone, si manifestano le consuete sequenze western di Sergio Leone, un boato accompagna l’ingresso dei Four Horsemen, James si avvicina al microfono, saluta quieto, ringrazia, poi digrigna i denti ed esplode
Fuel. Si capisce subito che il Sonisphere è in realtà un concerto dei Metallica che si son portati appresso tutta la produzione, con tanto di regia che si muove a ritmo, quindi iper-frenetica, mentre il volume del suono è salito di un 20% in più rispetto a quello che si era udito prima. L’impatto è notevole, il suono un po’ impastato visto il dispiego di decibel, le chitarre in primo piano che coprono la foga di Urlich e i movimenti agili da lottatore di sumo di Trujillo al basso, che comunque fanno la loro bella figura. La scaletta omaggia subito i primi passi della leggenda, con
From Whom The Bell Tolls e
Metal Militia e
Desponsable Heroes, una delle tracce più squassanti contenute in
Master Of Puppets, il messaggio è chiaro: siamo dei cinquantenni, ma ancora troppo fighi. I brani vengono tirati per le lunghe, tra urla belluine, stacchi, rincorse, pochi gli stop. Il primo arriva con
The Unforgiven II, sorta di continuazione di
The Unforgiven, che tanto bene fece all’interno del
Black Album. Il sequel è invece una delle più brutte canzoni di sempre, con le parole che non combaciano con le note e l’andatura incerta. Un altro quarto d’ora a girarsi i pollici tra
Cyanide e
Lords Of Summer, poi arriva
Sad But True, che dopo sei minuti palesa tutta la sua ripetitività. Una voce, un coro di ugole: l’acqua è di nuovo tra noi. Passaggi di bottigliette tra commozione e urla di giubilo. E’ chiaro che Kirk si senta in forma metallara e che lo faccia notare a più non posso con assoli ficcanti, prolissi, vuotamente spettacolari. Cominciano a partire le scommesse sulla tempistica dei suoi interventi tutti in sedicesimi, leniti da qualche sentito passaggio simil blues, con il pedale wha-wha che ormai spunta dappertutto. Monta l’ilarità quando giunge acclamata la sequenza prima in tapping poi plettratta, con effetto caduta dalle scale, di One. Con Master l’impressione è che l’alba sia dietro l’angolo. C’è una pausa, quando le luci si riaccendono ma gli schermi invece no. Poi ripartono, in bianco e nero.
Seek And Destroy è dedicata implicitamente a tutti noi.
Creeping Death sembra un augurio. Nothing Else Matters e anche gli accendini sono stanchi.
Enter Sandman viene urlata con moti di sollievo. È la fine. Ci vuole un’ora per arrivare alla metro, la stazione che pare un formicaio, la gente che non sa dove andare, le comunicazioni di servizio che minacciano la partenza dell’ultimo treno, non è vero ma la collettività in movimento sembra tratta da una scena di 28 Giorni Dopo. Only for rock. And Money.
Stefano Accordi, in esclusiva per Indiscreto (Assago, 2 giugno 2015)