La scoperta della NFL

Categorie: Football & Texas
Il football è il mio sport preferito, non ho alcun problema a dirlo: mi intriga sul piano tattico, mi esalta sul fronte dei duelli in campo e, più intimamente, quando ero modesto giocatore (1983-86, Towers Bologna, subito dopo il mio ritiro andarono ai playoff e un motivo ci sarà) mi aiutò ad uscire dal guscio esistenziale in cui ero vissuto fino a quel momento, creando amicizie e conoscenze che permangono e che assomigliano vagamente a quelle che sorgono in battaglia. Paragone spero non irriverente per chi le guerre vere le ha viste da vicino, ma che può dare l'idea. Molti sport di squadra affondano le radici in una solidità collettiva nata dalla somma di sofferenze individuali, e in una gloria personale originata dal lavoro di gruppo (il rugby, ad esempio), ma fatico a individuarne uno che riassuma in sé con tanta forza tutti questi elementi. E dire che normalmente storco il naso davanti a tutto ciò che è associazionismo, comunità, gruppo: tutte entità che a mio avviso abbassano alla soglia inferiore il livello di ciascun individuo, invece di elevarlo. Ma il football è diverso. Il mio migliore amico ai tempi del football era anche l'avversario che più di frequente avevo davanti in allenamento, cioé un wide receiver, e credo che sia significativo. Snap, copertura della traccia, ricezione/intercetto/nulla di fatto/placcaggio, dammi cinque e pronti per l'azione successiva. La sublimazione della capacità di dividere le regole del gioco da quelle della vita: sei amico, ma dal momento dello snap a quello del fischio dell'arbitro o dell'allenatore devo fare di tutto per fermarti, per batterti, per dominarti (magari!). Il football è l'esaltazione della tattica, nel costante tentativo di attacco e difesa di sopravanzare l'avversario sul piano delle idee, ma anche dei duelli personali che composti danno l'esito di un'azione. Mi affascina il duello delle linee, mi appassiona la gestione dei movimenti dei linebacker allo snap, mi terrorizza lo sforzo che i defensive back devono fare per leggere il gioco, ricordare la chiamata (io me la dimenticavo sempre!) e star dietro ai ricevitori fintanto che non hanno effettuato il movimento definitivo. Mi esalta l'elasticità mentale richiesta al quarterback per diluire informazioni in pochi istanti, quando coglie il movimento inatteso di un difensore prima dello snap, ed eliminare così le soluzioni offensive che da tale movimento potrebbero essere ostacolate, scegliendo invece quelle più favorevoli e trasmettendole immediatamente ai compagni di squadra che a loro volta dovranno comprenderle, ricordarle e metterle in pratica. Fantastico. Di scrivere un libro sono capaci quasi tutti, come dimostra purtroppo la recente storia dell'editoria sportiva. Dunque questo volume non è né un'impresa né, come suggerirebbe invece un caro amico, una rivalsa verso quei colleghi che, tanti anni fa, mi canzonavano per la mia passione per il football, invitandomi a seguire sport più popolari «altrimenti morirai di fame» (avevano ragione, con il football non si campa, ma c'è modo e modo di dirlo). E’ piuttosto una sospirata lettera d'amore a una disciplina per la quale ho fatto quel che difficilmente avrei fatto per altre. Un esempio, divertente anche se imbarazzante per l'illegalità involontaria? Quando a fine anni Ottanta lavoravo per una radio locale bolognese specializzata in sport proposi una diretta radiofonica delle finali di conference e del Super Bowl: era un periodo in cui tali finali si sarebbero viste in tv (in chiaro, perché esisteva solo quello) qualche giorno dopo, e il Super Bowl a 24 ore dalla disputa. Scrissi alla NFL per avere il permesso, sottolineando come fosse un'iniziativa senza fini commerciali e puramente romantica, di passione. E comunque la risposta arrivò a cose fatte. Come feci a fare la diretta di due finali di conference e del Super Bowl, allora? Semplice: chiesi al comando italiano delle Forze Armate Americane il permesso di seguire le partite presso gli studi AFRTS (Armed Forces Radio and Television Service) di Vicenza, e da lì, usando un normalissimo telefono preventivamente liberato da vincoli di segretezza, raccontai le partite per la radio. Senza ovviamente fingere di essere allo stadio, perché difficilmente avrei potuto far credere che ero stato al Giants Stadium per Giants-Redskins e pochi minuti dopo al Cleveland Stadium per Brown-Broncos, quella del The Drive di John Elway. Una serata, o meglio nottata, di ricordi caldi, per me: prima di tutto perché potei finalmente visitare gli studi dai quali partivano le trasmissioni radiofoniche che da anni seguivo da casa mia, sui 106 FM che miracolosamente arrivavano fino a Bologna; e poi perché all'epoca la diretta di una partita NFL era ancora una meraviglia, un'epifania misteriosa, un'apparizione celestiale, seppur concretamente tecnologica. Sembreranno discorsi antiquati, ma a mio avviso sono incresciosamente attuali: nell'epoca in cui c'è facile accesso a tutto ogni sera, ogni giorno, ogni notte, si perde - l'ho persa anche io! - l'emozione della scoperta, la preziosità unica dell'evento che hai tanto sognato e che dunque ti godi ancora di più. Del campionato NFL un appassionato italiano può vedersi partite su Sportitalia, su ESPN America e su GamePass, per non parlare dello streaming gratuito (e illegale). Si resta delusi se una partita, per qualche motivo, sfugge alla nostra visione, adesso: ma per noi vecchi era una festa ogni volta che si poteva raccogliere o sbirciare un'immagine, una foto, una rivista, un annuario (compreso quello da cui un giornalista poi noto in altro settore copiò parola per parola la presentazione di una squadra NFL uscita in Italia mesi dopo...). Ricordo ancora l'emozione pura e genuina quando un amico appassionato di musica country si fece spedire da un collega americano un vhs - visibile solo su videoregistratori con il sistema compatibile - con Auburn-Alabama del 1986, e ognuno tra i lettori meno freschi di età avrà un aneddoto simile da raccontare sull'emozione della prima volta: di una partita dal vivo, di un libro letto, di un paraspalle (o spalliera) indossato, del suono di un placcaggio. E' un concetto nel quale non pretendo che si riconoscano i lettori e gli appassionati più giovani, cresciuti in un'epoca in cui tutto è disponibile, tutto è già visto e la prima volta pare già la seconda, e ai quali sembrerà bizzarro che uno dei ricordi più belli che ho sia quello di un gracchiante speaker che in piena notte italiana dava su AFRTS Radio i risultati finali della giornata NFL: non c'erano foto, non c'erano immagini, c'era solo quel suono che evocava descrizioni meravigliose perché incompiute e lasciate alla suggestione individuale. Ascoltavi che la partita era finita quando un running back era stato fermato a una yard dal primo down sul quarto tentativo e cercavi di ricrearti la scena con la fantasia: corsa centrale, corsa off-tackle (all'esterno del tackle), sweep ovvero corsa larga? Non potevi saperlo, e allora veleggiavi incontro al sole della tua immaginazione, comprendendo finalmente cosa intendessero gli adolescenti americani degli anni Cinquanta quando raccontavano i ritratti ideali dei giocatori di baseball di cui udivano le imprese alla radio, che spesso amplificava ed esaltava le gesta oltre il reale, negli afosi pomeriggi estivi. Emozioni, suggestioni, creazioni della fantasia, ruvida realtà di placcaggi, corse senza fiato, collisioni, spirito di gruppo, palla che è troppo lunga per le tue dita ma perfetta per il ricevitore che ti va via in touchdown, il receiver che ogni volta torna in huddle e urla al quarterback «Ero libero!», la congestione degli spogliatoi del calcio riempiti da 40 persone, la mamma orripilata quando vede nella vasca da bagno la divisa infangata, i panini con la stagnola in trasferta, il playbook studiato in pullman, gli amici che non capiscono cosa sia «Il calcio americano», il papà notaio del compagno di squadra che aiuta a cercare sponsor ma si sbaglia e chiede aiuto per «Una squadra americana di calcio», il coach che urla, il coach che ti fa mettere la faccia nel fango, il coach che «Non ci danno il campo? Ci alleniamo sul cemento dentro a un capannone di granaglie» e che a distanza di tanti anni ricordi con infinito affetto: è questo il football che ho conosciuto, nelle sue declinazioni emotive e materiali, ed è questo che non mi abbandonerà mai, perché troppo incastonato nella memoria e nelle sensazioni. Quelle che mi fanno ricordare con nostalgia, a distanza di tanti anni, persino le brutte figure che da giocatore mediocre ho rimediato sul campo. E allora cosa troverete nelle prossime pagine? Un racconto incentrato sul football stesso, ma partendo dalla popolarità e dallo sviluppo che ha avuto in Texas, dalla high school ai Super Bowl disputati nello stato, vagando tra ricordi e aneddoti. Tema particolare e variegato, e spiego perché: secondo me, specialmente al giorno d'oggi, tra crisi economica e un'infinita seppur poco raffinata offerta di media, chi decide di acquistare un libro ha il diritto di trarne un gusto unico, anche se l'unicità sfugge a definizioni, specialmente a quelle preventive. La diffusione di internet e la facilità nel reperire testi mi hanno convinto subito a non seguire dunque la strada sterile del puro resoconto storico, teoricamente percorribile da chiunque abbia pazienza, tempo libero e capacità di copia-incolla. Ho preferito così aggiungere, ove possibile, un forte elemento personale, diretto. Il ragionamento è lo stesso che ho fatto a metà anni Novanta, quando internet è diventata una forza influente e affascinante: nel giornalismo pre-web la differenza era tra chi conosceva i fatti e chi non li conosceva, ma una volta che i fatti in sé (e ora anche il loro svolgimento tramite diretta televisiva o via web) sono noti a tutti la vera discriminante è in quello che si può vedere dal vivo, retroscena compresi, rispetto a ciò che viene mediato da mille filtri. Insomma, i dati di base - statistiche, svolgimento delle azioni, dichiarazioni - del Super Bowl XXXVIII sono noti a chiunque sia interessato: ma quel che ha visto chi era là, a Houston, è esperienza puramente individuale, unica, non duplicabile, per il semplice motivo che ogni persona che segue un avvenimento sportivo ha preparazione, mentalità, entusiasmo diversi dall'altra. Ho dunque scelto di personalizzare i racconti, utilizzando saltuariamente la prima persona singolare, narrante, quella che nel giornalismo quotidiano - quando vigeva ancora qualche regola - è sempre stata sconsigliata perché eccessivamente egocentrica, ma che in quest’ambito più raccolto, più intimo, vorrei che assumesse le sembianze di un racconto fatto ad amici, a una platea di appassionati interessati a saperne di più. E' evidente che il racconto personale è più forte quando descrivo avvenimenti cui ho presenziato, e per fortuna sono tanti, tra cui 17 Super Bowl, con la curiosa circostanza che mi ha portato a scegliere di seguire il training camp dei Green Bay Packers, nell'estate del 2010, per poi ritrovarmeli al Cowboys Stadium sette mesi dopo, finalisti e pure vincitori. Ma ho cercato di affrontare con la medesima prospettiva anche i fatti avvenuti prima del mio tempo, e sui quali peraltro posso aggiungere il mio contributo fatto di ricerche, viaggi, annusate dei luoghi, percezione delle concatenazioni logiche, geografiche, sociali. Ero ad esempio troppo piccolo, nel gennaio del 1974, per sapere che nel giorno del mio decimo compleanno stavano per scendere in campo al Rice Stadium di Houston i Miami Dolphins e i Minnesota Vikings, intenti a costruire, su traiettorie diametralmente opposte, una loro piccola leggenda. Né all’epoca sapevo cosa fosse il Super Bowl. Ma di quella partita ho visto e studiato tutto, visitando anche il Rice Stadium per rendermi meglio conto dei luoghi: quello che troverete nell'apposito capitolo è dunque il resoconto filtrato dalle mie esperienze e dalle mie conoscenze, insomma il frutto di un lungo lavoro. Mi sentirei un truffatore se mi limitassi a incollare parti scritte da altri. Troverete un linguaggio tecnico ma semplice, qui. Sono sincero: da appassionato della lingua italiana ma anche di quella inglese, di cui ho rispetto troppo alto per trascinarla nelle tante traduzioni a orecchio che sono in voga oggi nell'indifferenza di educatori e capiredattori, non amo le commistioni forzate tra i due mondi, e non ce la faccio – è più forte di me - a usare termini cacofonici come deflettato, che hanno oltretutto corrispondenti italiani già esistenti e validissimi; allo stesso modo non riesco proprio a usare vocaboli inglesi quando ne esista uno nostrano che sia altrettanto efficace. Oltretutto, parlare per termini tecnici esasperati, soprannomi e giri di parole da carbonari, comprensibili unicamente a chi abbia già compiuto l'ingresso nel mondo del football, contribuisce solo a creare e rafforzare parrocchiette e porre steccati, invece di aiutare diffusione e comprensione. Per cui un punt è un punt, pressoché intraducibile, ma una linea d'attacco è una linea d'attacco e non una offensive line, in questo libro, se non quando si debbano evitare ripetizioni in frasi vicine. E dunque di volta in volta ho usato i termini più comuni, cercando magari di spiegare quelli meno agevoli. Ecco tutto. (1-continua) Roberto Gotta Estratto del libro FOOTBALL & TEXAS, di Roberto Gotta (editore Indiscreto, 2011) L'edizione cartacea (260 pagine) del libro è in vendita via web attraverso la Libreria Internazionale Hoepli e da oggi è disponibile anche la versione eBook attraverso la piattaforma Bookrepublic.