Dictator, Cicerone e quelli veri prima del declino

C'è stato un periodo nella storia del mondo in cui hanno interagito fra di loro personaggi come Cesare, Pompeo, Catone, Crasso e soprattutto Marco Tullio Cicerone. La politica fatta persona, forse l'unico grande nella storia di Roma (non la Roma di Marino o di Tronca, chiaramente) ad essersi fatto strada senza vittorie militari, proprie o per interposto generale. È lui il protagonista ufficiale di Dictator, il terzo libro della trilogia di Robert Harris a lui dedicata (terzo volume dopo Imperium e Conspirata), mentre quello vero è lo schiavo Tirone, fedele segretario e trascrittore di tutte le sue orazioni. Più ciceroniano del suo padrone e maestro, poi amico dopo una commovente 'liberazione', in ogni pagina è evidente che Tirone siamo noi. Fai scattare l'identificazione, una delle prime regole del marketing. Harris è infatti senza se e senza ma il nostro scrittore preferito nella categoria 'professionisti', ogni suo libro ha un equilibrio perfetto fra realtà storica di fondo e fiction nelle parti di collegamento: lo si nota proprio quando si ispira alla storia più conosciuta, come è stato con L'Ufficiale e la spia (in pratica il caso Dreyfus, ma dalla prospettiva di un altro militare) ed Enigma, ma anche quando gioca con la storia controfattuale (Fatherland) e con quella contemporanea (I diari di Hitler), oltre che con l'alta finanza (L'indice della paura), la politica (Il Ghostwriter, ferocissima parodia del blairismo) e altri argomenti. Harris riesce a dare vita ed emozioni anche a personaggi sui quali è stato scritto tutto, come Cesare, suscitando un desiderio di approfondimento che pochi storici veri, nemmeno quelli più portati alla divulgazione, sanno suscitare. È chiaro poi che il materiale a disposizione ha la sua importanza: la transizione fra la fine della Repubblica e l'inizio dell'Impero è stato stato il periodo più confuso ed emozionante di una storia più che millenaria, ma da bravo ex giornalista (BBC e Observer, soprattutto) Harris riesce a farlo sembrare cronaca di oggi: l'eccesso di democrazia trasformatosi in clientelismo, le leggi contorte e troppo interpretabili, il popolo facilissimo da manovrare attraverso feste e regali, l'anarchia che prepara il terreno agli uomini forti, il culto della personalità che sostituisce le idee, soprattutto la perdita dei valori fondanti di una civiltà. Non è che Roma sia morta con l'ascesa di Ottaviano, anzi, ma di sicuro l'Impero nella sua fase propulsiva ha vissuto di rendita sul lascito culturale, giuridico e tecnico della Repubblica, tanto è vero che per un certo periodo ha funzionato anche con al vertice pazzi, criminali e inetti. Tutto poi è finito per mille ragioni, che più di due secoli fa Edward Gibbon ha spiegato in maniera meravigliosa (se il tempo è poco consigliamo anche il Bignami di Adrian Goldsworthy) e angosciante, con una interpretazione del declino poco pubblicizzata (viene in mente una battuta di Marrakech Express: "A noi ci ha rovinato il Cristianesimo, come cultura"). Purtroppo la storia non è maestra di vita, nemmeno nei rari casi in cui viene insegnata.